«È questo che pensa? Lo dice sul serio... che Peter è sceso dalla soffitta ed ha portato fuori nella neve, chissà dove, il cadavere del bambino?»
Con voce più tagliente e fredda, Grainger disse:
«Mi limito semplicemente a suggerire delle alternative alla sua versione incredibile. Il fatto che poi siano più o meno altrettanto inverosimili è un'altra faccenda. Per il momento, non sappiamo che cos'è successo. Possiamo solo cercare di indovinare.»
Douglas, che era accanto a Jane, disse: «Non possiamo lasciar perdere le teorie, per il momento? Se c'è anche una vaga possibilità che il bambino sia là fuori, vivo, la cosa più importante è cercare di ritrovarlo.»
«Sì,» disse Grainger. «Ha ragione lei, naturalmente.» Si passò una mano sulla fronte. «Non ho le idee molto chiare. Domando scusa, George.»
Hamilton, addolcito, disse: «Penso che siamo tutti un po' fuori squadra. Abbiamo bisogno di qualcosa che ci aiuti a rimetterci in sesto. Venite: berremo un sorso.»
Jane rifiutò di bere, e insistette perché Diana prendesse solo pochissimo brandy. Hamilton versò qualcosa di forte per gli uomini e per Elizabeth. Questa, perfettamente padrona di sé, disse: «Sì, ne ho bisogno.» Bevve in fretta, con una piccola smorfia.
Hamilton propose che la ricerca venisse svolta dai cinque uomini: quattro avrebbero battuto la zona intorno allo chalet e Peter, che era uno sciatore provetto ed era abituato a girare per la montagna di notte, si sarebbe spinto più lontano. Grainger annuì.
«Mi pare giusto. Comunque, se anche è là fuori, il bambino non sarà andato lontano. Non è possibile.»
Elizabeth intervenne di nuovo, insistendo per partecipare anche lei. Anche Jane e Diana protestarono. Diana disse:
«Una persona in più può servire a trovarlo... o a trovarlo in tempo. Comunque, è meglio venire fuori, piuttosto che rimanere qui ad attendere.»
«È giusto,» riconobbe Hamilton. E buttò giù il liquore. «Allora muoviamoci. Tutti di sopra, e copriamoci bene. Ci troviamo giù, appena sarete pronti.»
Quando Jane ridiscese, c'era pronto il caffè. Lo bevve con piacere, e ascoltò le istruzioni di Hamilton. Dovevano muoversi a coppie o in tre, per evitare che qualcuno cadesse, si rompesse una gamba, rendendo necessarie altre ricerche. Vennero assegnate le diverse zone da battere. Diana si era già aggregata ai Grainger e doveva occuparsi, insieme a loro, dell'area a est della casa. A Jane e a Douglas venne detto di cercare a ovest. Hamilton, insieme a Deeping, avrebbe fatto un ampio giro, più in alto e più a valle dello chalet.
Fuori era più freddo di quanto Jane avesse immaginato, ma anche più chiaro. La luce della mezzaluna, riflessa dalla neve, le permetteva di vedere abbastanza lontano. Verso sud, le Alpi apparivano all'orizzonte, fioche ma molto reali. Appena si allontanò dalla casa, guardò giù, verso la strada per Nidenhaut, e vide che il dosso della montagna che li isolava dal villaggio appariva molto netto. Il cielo cominciava già a impallidire un po', verso oriente.
Sebbene la visibilità fosse migliore di quanto lei si aspettasse, la luce creava strani effetti ottici, confondendo quanto ricordava di quella zona. Dopo venti metri, perse l'equilibrio e scivolò in una depressione. Douglas scese per aiutarla a rialzarsi. Lei disse, malinconicamente:
«Era questo che intendeva George, immagino.»
«Non si è fatta niente, vero? Niente di rotto o di slogato?»
«No, niente.»
Douglas le tenne il braccio per un momento con la mano guantata, poi la lasciò. Per lei fu un sollievo. Non che corresse pericolo di un approccio romantico, in quel momento e in quelle circostanze, pensò, ironicamente. Ma l'aveva turbata un po' il pensiero che Hamilton li avesse mandati fuori insieme. Diana, che ne era in parte responsabile per la sua decisione di andare con i Grainger, la sera prima aveva detto la sua in proposito. Era stato un commento solo in parte malizioso. Le aveva chiesto, seriamente: «Ti trovi bene con lui, vero? Voglio dire, a parlare.» La frase, pensava Jane, poteva essere tradotta così: «Sei stata fortunata a trovare un tipo noioso come te, quassù.»
Era vero che lei lo giudicava una compagnia simpatica e riposante. Proprio per questo, considerava importante evitare la possibilità che subentrasse qualcosa d'altro. Aveva vissuto insieme al proprio corpo abbastanza a lungo per sapere che molti uomini lo trovavano fisicamente attraente. C'era la probabilità che Douglas, libero a quanto pareva, la pensasse allo stesso modo. A meno che, considerando che in genere gli uomini sui trentacinque anni mostravano di avere qualche legame, o almeno di averlo avuto, lui si disinteressasse delle donne. Jane si stupì di provare una lieve fitta di disappunto, quando le passò per la mente quella possibilità.
Be', era normale. Una donna preferiva che un uomo fosse maschio, con tutto ciò che questo comportava, anche se non era interessata personalmente. E la sola idea di essere interessata a lui, o a qualunque altro uomo, era deprimente.
La morte di Harry, dopo una malattia così fulminea, l'aveva inevitabilmente stordita. Per un paio di mesi le era parso di essere immersa in una nebbia. Ma nel frattempo aveva capito ciò che le succedeva, e che questo avrebbe avuto un limite. Il trauma sarebbe passato; la vita sarebbe ridiventata normale. Ma non aveva previsto che dopo lo stordimento sarebbe venuta l'apatia attuale, il pensiero insistente, in fondo alla sua mente, che tutto era vano, non c'era nulla per cui valesse la pena di lavorare e di lottare, poiché la vita era sopportabile solo se la si viveva alla giornata.
I suoi rapporti con l'altra gente erano un'estensione di quella filosofia. Poteva tollerare gli altri, purché non pretendessero niente. Talvolta, anzi, la compagnia degli altri era preferibile alla solitudine. E quando il legame era semplicemente di parentela... Jane non aveva accolto con risentimento l'energico ritorno di Diana nella sua vita: aveva accettato passivamente le sue premure e, alla fine, si era lasciata persuadere ad affrontare quel viaggio. Non si era mai compiaciuta né pentita di quella decisione. Lì aveva sciato un po', oziato molto, aveva bevuto più di quanto avrebbe fatto in Inghilterra, aveva parlato con gli altri e li aveva ascoltati. E tutto questo non era valso a modificare ciò che provava.
Per un po' si era sentita commossa dalla morte del bambino. Era l'ingiustizia che l'aveva sconvolta: il fatto che quel bambino, apparentemente in buona salute, con ogni motivo di vivere, fosse stato privato della vita, che per lei era un peso, un tran-tran necessario e indesiderato. Poi era passato, e la vaga possibilità che il bambino fosse ancora vivo non aveva riacceso la commozione. Prendersi a cuore la sorte del piccolo avrebbe significato impegnarsi, e lei sapeva che non c'era nulla che ne valesse la pena. Se lui fosse vissuto, avrebbe commesso delle stupidaggini, avrebbe compiuto scelte che, nobili od egoistiche, avrebbero portato all'infelicità o alla noia. Non esistevano alternative.
Tornarono in direzione dello chalet, e il vento dell'est era pungente contro il suo viso scoperto. In pigiama, pensò, e scalzo. Non poteva essere ancora vivo, là fuori. La ricerca, come tutto il resto, era uno spreco di tempo e di energie. Sarcasticamente, era lieta che fosse anche scomoda.
Douglas, che era sul pendio, un poco più in alto di lei, disse:
«Fra poco farà giorno.»
Lo sperone montuoso, davanti a loro, era delicatamente sfumato di rosa, e in alto le stelle impallidivano. Sui pendii lucenti, Jane vedeva altre figure: due insieme più a valle dello chalet, tre più in alto e più lontano. La stanchezza e la mancanza di sonno l'avevano stordita un po'.
«Douglas,» disse.
Douglas girò la testa verso di lei. «Sì.»
«C'è qualcosa che valga la pena di fare?»
Era una domanda ridicola, e Jane se ne pentì subito dopo averla formulata. Lui ne sarebbe rimasto sbalordito, oppure imbarazzato. Si sentì invadere da un'ondata di disperazione.
Ma lui disse, dopo aver riflettuto per qualche istante: «È diverso, credo, secondo le persone, no? Per me. Ecco, attenersi alla realtà, credo. E non cedere ad altre cose. Soprattutto questo, penso.»
Bene, aveva avuto esattamente la risposta che poteva aspettarsi da un avvocato di provincia, scapolo e in ascesa. Un uomo serio, solido. Come Harry, in un certo senso. Oh, Dio, pensò. Fa tanto freddo. E sono così stanca.
Poiché lei non aveva risposto, Douglas proseguì: «Non credo che le reazioni di una persona possano essere di molto aiuto ad un'altra. Anche le reazioni sono diverse, secondo i momenti. È questione di periodi, di fasi. Quando uno si trova in una brutta fase, è impossibile immaginare di venirne fuori... non si può credere che esista una via d'uscita. Ma alla fine se ne esce sempre. È più o meno una certezza.»
Con triste ironia, Jane pensò: cerca di essere gentile. Compiange l'infelice vedova. Crede che sia addolorata per Harry, e si sforza di essere comprensivo. Disinteressatamente comprensivo. Per un momento, pensò di spiegargli che non era così, ma vi rinunciò. Le spiegazioni erano inutili, inutili come le domande formulate su di un pendio montano innevato nell'alba gelida.
Disse: «Ecco laggiù George e Leonard Deeping, no? Sembra che tornino verso lo chalet. Andiamo anche noi?»
Nessuno aveva trovato niente. Mentre mangiavano la colazione preparata da Mandy — porridge con melassa, e poi grosse fette di prosciutto con patate fritte — ne parlarono. Hamilton disse:
«Penso che abbiamo cercato dappertutto, entro una distanza ragionevole. E Peter non ha trovato nessuna traccia sui pendii più lontani. Possiamo tornare a uscire fra un po', ma non ho molte speranze.»
Grainger vuotò la tazza di caffè e se ne versò dell'altro.
«Siamo stati fuori più di due ore,» disse. «Con il tempo che abbiamo impiegato a frugare la casa e il resto, sono più di tre.» Diede un'occhiata a Deeping. «Mi dispiace, ma anche se non era morto ieri, non può essere vivo, adesso. È una certezza, dal punto di vista medico. E del resto, ieri era morto.»
Deeping non disse nulla. Mangiava il cibo che aveva davanti, impassibile. Stoicismo? si chiese Jane. O insensibilità? O forse né l'uno né l'altra, ma la dolorosa certezza che la morte del bambino poteva diventare un elemento centrale, ineluttabile della sua vita futura insieme ad una donna privata della sua ragione di vita e quindi, poiché non aveva più nulla da perdere, pronta ad odiare? Jane interruppe bruscamente quelle ipotesi. Un crescente cinismo circa le motivazioni degli altri era uno degli effetti secondari più deprimenti del riconoscimento di una assenza di motivazioni per se stessi.
Douglas disse: «Questo non spiega perché nessuno di noi ha trovato niente.» Anche lui lanciò un'occhiata a Deeping e proseguì, abbassando la voce: «Presumeremo che Andy sia morto. Mi sembra ragionevole. Ma anche così, dov'è? Non è in casa, e fuori non c'è... nelle immediate vicinanze, almeno. E allora dove? E come?»
«Potrebbe essere fuori,» disse Hamilton. «È facile farsi sfuggire qualcosa, nella luce che precede il levar del sole. Per esempio, non si riesce a distinguere se il ghiaccio è stato smosso.»
Elizabeth chiese: «Vuol dire che qualcuno potrebbe avere messo il corpo nel ghiaccio? Ma perché?»
«L'ho già detto,» fece Grainger. «Potrebbero esserci parecchie ragioni. Tutte pazzesche, naturalmente, ma anche la situazione è pazzesca, non è vero?»
«Si sbagliava, sul conto del vecchio Peter,» disse Hamilton. «È il più sconvolto di tutti. Gli svizzeri ci tengono che la morte sia una cosa solenne e cerimoniosa, immagino.»
«Peter era solo una possibilità. Comunque, anche se si mostra preoccupato, non basta a escluderlo. Siamo tutti attori, e tutti sottovalutiamo l'abilità teatrale del nostro prossimo.»
«In realtà,» osservò Douglas, «lei non sta dicendo che siamo tutti attori, ma che uno di noi è un pazzo d'una specie particolarmente sgradevole.»
«Sto dicendo,» lo corresse Grainger, prendendo una porzione di patate, «che non riesco a immaginare una spiegazione sensata. Questo non significa che non ci sia.»
Poi continuarono a parlare, bevendo dell'altro caffè. Jane li ascoltò, con un blando interesse. Si sentiva molto stanca, e pensava al suo letto morbido e caldo, dal quale era stata strappata dopo poche ore di sonno. Persino il fattore enigmatico della situazione non significava molto per lei. Era sconvolgente che il bambino fosse morto, sconvolgente in modo diverso, che il suo corpo fosse scomparso. Lei ne prendeva atto, ma senza partecipazione.
La caffettiera era vuota, notò, come la sua tazza. In circostanze normali, la soluzione sarebbe stata tirare il cordone gallonato del campanello che pendeva accanto all'enorme stufa di maiolica. Le circostanze, però, non erano normali. Decise che il meno che poteva fare era portare lei stessa la caffettiera in cucina: sarebbe servito a spezzare la noia, forse a svegliarla. Hamilton, quando vide quel che stava facendo, disse: «Ci penso io, Jane,» ma accettò il suo sorriso e la sua scrollata di capo e continuò a parlare. Lei prese la caffettiera e il bricco del latte: lei preferiva il caffè nero, senza aggiunta del latte annacquato, il solo che fosse disponibile, ormai; ma alcuni degli altri riuscivano a sopportarlo. E uscì nel corridoio.
Vide Ruth Deeping davanti alla porta che dava nel bar. Non era una sorpresa: l'avevano lasciata addormentata lì, sul divano; presumibilmente si era svegliata, si era trovata sola, ed era uscita a cercare gli altri. Era sorprendente, invece, che non fosse diretta né verso il salone né verso le scale, ma verso la porta d'ingresso. Quando arrivò alla porta interna e la spalancò, Jane le gridò:
«Ruth! Cosa c'è?»
L'altra non le rispose, non si voltò neppure a guardarla. Cominciò a smuovere il pesante anello di ferro della porta esterna. Era ancora vestita come prima, una vestaglia leggera sopra la camicia da notte, e le pantofole.
Jane vide che c'era un ripiano sopra il termosifone, lì accanto a lei; posò in fretta quello che aveva in mano e si lanciò a corsa lungo il corridoio. Ruth riuscì ad aprire la porta nel momento in cui la raggiunse. Lottarono sulla soglia, mentre l'aria gelida turbinava attorno a loro, e Jane gridò per chiamare gli altri. Prima che arrivassero, era stata trascinata fuori, sulla neve, e il collo le doleva dove Ruth l'aveva graffiata.
Gli uomini riuscirono ad afferrare Ruth e a trascinarla nel bar. Lei si dibatteva per svincolarsi e imprecava come avrebbe fatto un bambino: le parole non erano orribili, ma era osceno il modo in cui le uscivano dalle labbra, spezzate e convulse. Grainger cercò di calmarla.
«Sta bene,» disse. «Si era addormentata, e ha fatto un brutto sogno. Tra un attimo si sentirà meglio. Si calmi. Così fa solo del male a se stessa.»
«Bastardi!» esclamò lei. «Maledetti bastardi... lui è là fuori. Andy è la fuori, al freddo.»
«Siamo andati a cercarlo,» disse Grainger. «E forse fra poco ricominceremo.»
Hamilton si era allontanato dal gruppo: tornò portandole un bicchiere di brandy. «Ecco. Lo butti giù e si sentirà meglio.»
Ruth restò immobile per un momento, poi fece uno sforzo rabbioso per liberarsi. Non ci riuscì, ma il bicchiere finì rotolando sul pavimento.
«Lasciatemi andare, maledetti porci,» disse. «Andy... è là fuori, vi dico. L'ho visto!»
Lo disse con una convinzione agghiacciante. Pur sapendo che era un'assurda illusione creata dal trauma e dal dolore e dalla droga che le aveva dato Grainger, Jane guardò automaticamente la finestra. Fuori era molto più chiaro, adesso, sebbene il sole non fosse ancora sorto.
Con voce sommessa, assecondandola, Grainger disse: «Dove, Ruth? Dove lo ha visto? Noi vogliamo solo aiutarla. Mi creda.»
Ruth cercò di muoversi in direzione della finestra. Grainger fece un cenno, e gli altri la lasciarono. La seguirono, le si misero intorno. Lei indicò la neve.
«Là. Era là. Mi sono svegliata, ho guardato fuori, e l'ho visto.» Si voltò a guardarli, con il viso contratto, disperato. «È la verità! Non sono pazza! Era là!»
«Vicino al punto dov'è caduta la valanga più piccola?» chiese Hamilton.
«Dall'altra parte. Non posso sbagliarmi.»
Douglas le chiese: «Com'era?»
«Era Andy! Che altro poteva essere?»
«Voglio dire, cosa aveva addosso?»
«Solo il pigiama.» Un singhiozzo la squassò. «Con quel freddo atroce. E aveva in mano un cesto.»
Era quell'ultimo particolare, il tocco d'incubo. Jane rabbrividì invincibilmente, mentre guardava fuori a sua volta. I pendii candidi erano deserti. Il vento, che sembrava rinforzarsi, sollevava un pulviscolo leggero dal punto in cui era scesa la valanga: ma a parte quello non c'era nulla, nessun movimento, nessun segno di vita. Un bambino in pigiama, con un cesto. Un'illusione, che altro? Ma era un pensiero terrificante.
Il silenzio venne rotto da Hamilton. Batté una mano sulla spalla di Ruth, con gesto pieno di calore umano, banale e consolante.
«Bene,» disse, «in questo caso usciamo di nuovo, a dare un'altra occhiata. E lei deve promettere di restare qui a guardarci. Potrà vedere tutto quello che succede.»
«Voglio venire con voi!»
«Non è vestita,» disse Hamilton. «E soprattutto, non si sente bene.» Guardò Grainger, che annuì. «Andremo io, Leonard e Douglas... subito. Basteremo noi tre. Ormai è abbastanza chiaro. E gli altri resteranno ad aspettare insieme a lei. Può andare a prendere una tazza di tè per Ruth, Jane, per favore?»
«Ma sì, certo.»
Ruth rimase tranquilla per un po', ma poi divenne sempre più irrequieta, guardando le tre figure che si muovevano su e giù per i pendii. Quando finalmente tornarono, scoppiò in un'altra crisi di singhiozzi e di accuse: non avevano cercato bene... Andy era là, e l'avrebbero trovato, se l'avessero cercato davvero. Grainger l'osservò per un momento poi disse:
«Andremo a cercarlo noi. Le va bene?» Ruth annuì, senza smettere di singhiozzare, incapace di parlare. Grainger diede un'occhiata a Elizabeth. «Conducila di sopra e falla vestire.»
Quando le due donne furono uscite, Hamilton chiese: «Pensa davvero che Ruth debba andare fuori? Il bambino non c'è, questo glielo assicuro io.»
«Può servire, se Ruth vede con i suoi occhi che non c'è.» Grainger scrollò le spalle. «D'altra parte, naturalmente, può anche essere inutile. A un certo punto, una fissazione non può più venire sradicata. Ma credo che dobbiamo accordarle il beneficio del dubbio. Almeno, la calmerà un po'. È troppo tesa.»
Alla fine, a parte Mandy e i due servitori, andarono tutti. Lo chalet era ancora nell'ombra della montagna, ma verso ovest la neve era illuminata dal sole del mattino. Là fuori c'erano tepore e allegria, pensò Jane, sebbene il vento fosse più frizzante: le riempiva gli occhi di lacrime e le bruciava le labbra.
Cercarono per più di mezz'ora, ma fin dall'inizio era stato evidente che si trattava d'una impresa disperata. La coltre di neve si stendeva nuda e vuota davanti a loro, liscia tranne nei punti in cui era segnata dalle orme dei passi e dalle scie degli sci, e dai detriti trascinati dalla valanga. Alcune impronte erano piccole, e avrebbero potuto essere quelle del bambino: ma naturalmente, era stato da quella parte che i due avevano giocato, prima che Andy fosse colpito dall'attacco. Da allora non aveva più nevicato.
Ruth parve riconoscere l'inutilità della ricerca e quando, alla fine, Grainger le si avvicinò prendendola per un braccio e le disse dolcemente «È ora che rientriamo, credo,» lei non protestò. Tornarono in silenzio allo chalet. Mandy li aspettava nell'ingresso, e insieme a Elizabeth condusse Ruth di sopra. Poi Grainger disse:
«Spero che questa volta si farà un buon sonno. Ma è meglio che qualcuno rimanga con lei. Potrebbe compiere ancora qualche gesto inconsulto.»
«Ci penserà Mandy,» disse Hamilton. «Al resto, qui, provvedo io.» E aggiunse, rivolgendosi a Deeping: «Mandy la metterà nella nostra stanza, per il momento... Ho pensato che fosse meglio. Spero che sia tutto a posto.»
«Sì, naturalmente,» disse in fretta Deeping.
Hamilton diede un'occhiata agli altri ospiti: «Credo che a tutti voi farebbe bene un po' di riposo.»
«E lei e Mandy?» chiese Douglas.
Hamilton rise. «Qui si lavora tutto il giorno. In questo genere di attività, si impara a fare a meno di dormire.»
Alcuni decisero di andare a letto; altri rimasero alzati. I Grainger si divisero: lui pensava che, essendo ormai giorno, era assurdo cercare di dormire; lei, sbadigliando come una grande gatta elegante, dichiarò che il sole non la tentava, quando aveva dormito meno del necessario. «Sì,» le disse Grainger, «vai a rimetterti in forma.» Lei sorrise, gli batté delicatamente una mano sulla guancia, e salì con grazia la scala.
Diana, che evitava ostentatamente di guardare Grainger, disse che anche lei riteneva inutile tornare a letto. Non era il caso di preoccuparsi, pensò Jane. Diana amava i flirt e, ne era sicura, sapeva anche tenerli saldamente in pugno; mentre Grainger, per quanto fosse un tipo galante, non si sarebbe mai allontanato molto da quella sua moglie decorativa ed efficiente. In un primo momento decise di rimanere alzata, ma poi cambiò idea quando si accorse che sarebbe rimasto alzato anche Douglas. In parte, non le andava l'idea che le venisse attribuita una manovra simile a quella di sua sorella; ma soprattutto si sentiva imbarazzata al ricordo della domanda che gli aveva rivolta quando erano fuori insieme sulla neve, e della risposta di lui, benintenzionata e goffa.
Si svestì in fretta e si mise a letto. Era un piacere voluttuoso sentirsi addosso il tepore e il peso delle coperte; e poiché si sentiva anche invasa da un'ondata di sonnolenza e di stanchezza, pensò che sarebbe riuscita ad addormentarsi. Ma, come aveva sospettato, il caffè l'aveva svegliata del tutto. Più volte scivolò sull'orlo dell'oblio, per poi ritrovarsi completamente desta. Quando guardò l'orologio e si accorse che era già passata quasi un'ora da quando era tornata a letto, riconobbe l'inevitabile, si mise seduta e prese il libro.
Dall'esterno giungeva di tanto in tanto qualche rumore: qualcuno che si muoveva. Poi dei passi, davanti alla sua porta, diretti verso il bagno. Il libro che stava leggendo era del genere che le piaceva, ma che di quei tempi sembrava una rarità: parlava di gente simpatica in una prosa piuttosto gradevole. Jane giudicò un po' strano il fatto che le interessassero le azioni di quei personaggi fittizi, non quelli veri. Ma forse i fittizi erano più simpatici: e in quella categoria collocava anche se stessa.
All'inizio non fece molto caso, quando fuori l'attività crebbe e diventò più rumorosa... qualcuno che alzava la voce, che correva. Ma poco a poco, un senso di urgenza si comunicò anche a lei. Scese dal letto, infilò vestaglia e pantofole e aprì la porta. Douglas stava salendo le scale, e lei lo chiamò.
«Cosa c'è? Hanno trovato il bambino?»
Di solito, Douglas aveva qualcosa del ragazzo — snello e bruno, con la pelle chiara ed i capelli ondulati — e anche adesso, sebbene fosse teso, l'impressione non era diversa. Sembrava ancora un ragazzo, ma preoccupato. Quando Jane lo chiamò si fermò, alzò la testa.
«No,» disse. «Non hanno trovato il bambino. Ma adesso abbiamo perso Ruth.»
V.
Ruth non volle saperne di spogliarsi di nuovo, tuttavia Mandy riuscì a convincerla a sdraiarsi sul letto, con una coperta addosso. Poi accostò una sedia al letto e parlò con lei. Non aveva mai avuto difficoltà a parlare con la gente: George aveva pensato che fosse una qualità preziosa, quando avevano deciso di metter su una pensione. Il segreto, benché lei non se ne rendesse conto, stava nel fatto che aveva pochissima vanità, e sapeva parlare di se stessa senza imbarazzo né aggressività. E non attendeva mai l'approvazione e la disapprovazione del suo interlocutore. Così parlò di sé, e di George, e della vita strana ma piacevole che avevano vissuto insieme. Ruth l'ascoltò — era difficile capire con quanta attenzione — e alla fine disse:
«Naturalmente, non avete figli.»
Il tono era amaro. Mandy esitò prima di rispondere. Non aveva parlato dei dodici anni della sua vita che avevano preceduto l'incontro con George. E c'erano modi e modi di perdere le persone care... parlarne non sarebbe servito a consolare quella poveretta. Scosse il capo.
«No, non abbiamo avuto figli.»
Qualcosa, nella sua voce, l'aveva tradita. Ruth disse, bruscamente:
«George è il suo primo marito?»
«No,» rispose lei, riluttante. «Tutti e due eravamo al secondo matrimonio.»
«E figli?»
«George no.»
George no, infatti: l'idea di Phyllis con dei figli sarebbe stata ridicola o sinistra. La povera Phyllis era stata creata per i balli nella sala mensa degli ufficiali della RAF in tempo di guerra, e per i bombardamenti e le incursioni, nel coraggioso riconoscimento che non c'era futuro. Che cosa aveva detto George? «Tre fidanzati morti... ma la guerra doveva finire, prima o poi.»
«Ma lei,» disse Ruth, «lei aveva avuto un figlio dal primo matrimonio?»
«Avevo tre figli,» disse Mandy, e come sempre si rese conto di avere usato l'imperfetto.
«E che ne è stato di loro?»
«Sono stati affidati al padre.»
«E lei non poteva opporsi?»
«No.» Mandy ci pensò. «Onestamente, no.»
«L'onestà c'entra per qualcosa, in una cosa simile?»
«Credo di sì. Spero di sì. Per loro era la soluzione migliore.»
«Sembra che non le sia dispiaciuto molto.»
In quella frase c'era non meno incredulità che disprezzo. Mandy disse: «Erano felici, molto affezionati al padre. E molto americani. George ed io... ci siamo divertiti, ma non direi che sia stata un'esistenza stabile, l'ambiente ideale per allevare dei bambini.»
«Parla in tono molto oggettivo.»
«È tanto orribile? Naturalmente, c'era anche qualcosa d'altro. Io ero in torto. Ero scappata con uno straniero. Può immaginare un tribunale americano disposto ad affidarmi la custodia dei figli, in simili circostanze?»
Vi fu un silenzio, poi Ruth disse:
«Purtroppo, credo di non essere in grado di capirla.»
«No,» disse Mandy. «D'altra parte, neppure io riesco a spiegarmi bene.»
Pensò che Ruth avrebbe continuato, ma non fu così. In un certo senso, sembrava che quella totale incapacità di comprensione e di comunicazione fosse un sollievo per lei. Il suo volto, quando si riappoggiò al cuscino, era teso e infelice, ma un po' meno di prima, pensò Mandy. E dopo qualche istante il suo respiro diventò più regolare, più profondo, e Mandy si accorse che si era assopita.
Guardò la donna addormentata, cercando di pensare a qualcosa che l'aiutasse a far passare il tempo. Ma i bei ricordi, per il momento, erano stati scacciati da quelli brutti; e a questi ultimi lei non voleva arrendersi. Aveva dato un'occhiata all'orologio appena si era accorta che Ruth dormiva e, quando tornò a guardare, vide che erano trascorsi soltanto cinque minuti. Fu una constatazione deprimente. Aveva bisogno di qualcosa che la tirasse su... ne aveva bisogno veramente.
Con un sussulto di sorpresa e poi di piacere, si rese conto di un'altra cosa: non aveva ancora bevuto niente, quel giorno. Si era alzata in fretta e furia nel cuore della notte, quando Ruth aveva urlato in fondo alle scale, e da quel momento era stata troppo indaffarata per pensarci. E naturalmente ne era lieta. Dimostrava che, anche se era diventata un'abitudine, era un'abitudine cui si poteva rinunciare. Dalla finestra vedeva le vette montane, fulgide nel sole mattutino. Forse un po' c'entravano le montagne. Le avevano sempre fatto un po' paura, e nella stagione morta, quando stava molto tempo senza far niente, l'opprimevano più che mai. Era nella stagione morta che beveva sempre di più: quando c'erano ospiti nella pensione, non beveva di più, semmai un po' di meno.
Forse, se si fossero trasferiti altrove... La Camargue, magari. O la Grecia... una delle isole più piccole. Il suono e la vista del mare, pensò, sarebbero stati un conforto. Lassù c'era soltanto il silenzio o l'ululato inumano del vento. E i campanacci delle mucche, d'estate, lontani, malinconici.
Prese la bottiglia dal solito posto, attenta a non farla tintinnare. Era ormai mezza vuota; lei non s'era accorta che il livello fosse tanto calato. Versò la solita dose nel bicchiere, e poi ne versò ancora un poco. Dopotutto, aveva ancora qualcosa in mano. Bevve a piccoli sorsi, uno dietro l'altro. Il liquore la riscaldò e le montagne lontane sembrarono meno spaventose. Poi si stancò di sorseggiare e buttò giù il resto, e sentì il calore più vivo, più pesante. Tenne in mano il bicchiere vuoto e lo fissò. C'era silenzio: non sentiva altro che il respiro di Ruth addormentata e il ticchettio dell'orologio. Lo guardò. Solo un quarto d'ora. La cosa migliore, decise, era versarsi un altro sorso e non toccarlo per... per quanto? Un altro quarto d'ora? Mezz'ora, magari? L'importante era vederlo davanti a sé, disponibile, in attesa di un suo atto di volontà.
Cominciò a bere il secondo bicchiere dopo dieci minuti, e l'insuccesso la depresse tanto che lo vuotò in fretta e se ne versò un altro. Questa volta non si fissò limiti di tempo e fu sorpresa e compiaciuta nel constatare che la tentazione era meno forte. Aveva avuto bisogno di rilassarsi, e forse quei due bicchierini erano bastati allo scopo. Adesso si sentiva rilassata, e fisicamente stanca... non aveva sonno, ma era stancante stare seduta su una seggiola. Prese il bicchiere e senza far rumore si accostò al letto di George. Posò il bicchiere sul comodino e si sdraiò. Poteva vedere nello stesso tempo Ruth e il bicchiere, e il letto morbido era un conforto. Il letto di George. Pensò a lui, con affetto. Non sono infelice, si disse... chi lo sarebbe, con George? Forse, certe cose bisogna pagarle, e alcuni di noi non hanno il danaro. Così dichiariamo fallimento. Prese il bicchiere, lo accostò alle labbra, inclinandolo senza versare il liquore, e bevve ancora un po'.
Quando si svegliò si rese conto, con un senso di colpa, che mentre lei era assopita Ruth poteva essersi svegliata ed avere visto il bicchiere sul comodino. Fu questo il primo trauma, nel vedere vuoto l'altro letto: Ruth si era svegliata, forse era andata in bagno, e si era accorta che lei beveva. Si sentì coperta da un sudore di vergogna. Passò un momento o due in attesa di udire i passi che ritornavano, chiedendosi come avrebbe potuto giustificarsi, prima di ricordare perché era lì: avrebbe dovuto sorvegliare Ruth.
Si alzò in fretta, senza pensare più al bicchiere, e uscì dalla stanza. La porta del bagno era chiusa. Bussò, non ricevette risposta e girò la maniglia. La porta si aprì, e il bagno era vuoto. Controllò le altre stanze di quel piano, ma senza molte speranze. Il bagno del primo piano... forse Ruth aveva pensato che questo fosse occupato, ed era andata là. Era una probabilità molto vaga, comunque andò a vedere. La porta era chiusa, e anche stavolta non ottenne risposta quando bussò. Ma stavolta non si mosse quando lei cercò di aprirla.
George, quando lo avvertì, non perse tempo. Corse di sopra, si avventò contro la porta del bagno, e la spalancò. Mandy, che gli era alle spalle, vide che dentro non c'era nessuno, e che la finestra era aperta. Un po' di neve finissima entrava, portata dal vento: doveva cadere dal tetto, perché il cielo era azzurro e limpido.
Era la via più facile per uscire inosservati dallo chalet. C'era una tettoia, circa un metro al di sotto del davanzale della finestra. Il salto dalla tettoia a terra non era più di due metri e quaranta, e sotto c'era la neve soffice. Era possibile seguire il percorso seguito da Ruth: la neve smossa lungo la tettoia, e una buca nel punto in cui era saltata giù.
Mandy disse, avvilita: «La colpa è mia. Non avrei dovuto addormentarmi.»
George le cinse le spalle con un braccio, la strinse.
«Eri stanca, tesoro. Non preoccuparti. Non credo che avremo difficoltà a ritrovarla.» E si staccò dalla finestra. «Non è di questo che avevo paura.»
«È uscita per tornare a cercare il bambino?»
«E perché altro, se no? Ma anche se trovassimo quel poverino, adesso, temo che lei non ci crederebbe. Comunque, andiamo a cercare Selby.»
Dallo chalet, non si scorgeva traccia di Ruth. Elizabeth dormiva ancora, e anche Stephen: ma tutti gli altri erano radunati a pianterreno. Diana, che stava aggrappata a Grainger, disse:
«Sarà meglio uscire a coppie, non vi pare? E andare in direzioni diverse.»
Grainger osservò, impaziente: «Non c'è bisogno di una ricerca in grande stile. È ovvio dove si è diretta.»
«Ovvio?» chiese Douglas Poole.
«Credo di sì. Su, oltre la valanga. È là che afferma di avere visto il bambino.»
«Questa volta, potrebbe essere convinta di vederlo nella direzione opposta.»
«Ne dubito. Direi che ormai è una fissazione. Probabilmente non la cambierà.»
Jane disse: «Che strano. Il bambino... con un cesto.»
Mandy fu scossa da un brivido d'inquietudine. «Ha detto proprio così? Che il bambino aveva un cesto?»
«Sì,» disse Grainger. «È quel tocco strano che accompagna certi tipi di allucinazioni fantastiche. Assurdo e plausibile nello stesso tempo.»
Mandy disse: «Però manca un cesto.»
La guardarono. George chiese: «Ne sei sicura?»
«L'ho notato quando sono scesa a controllare le scorte di viveri. Il vecchio cesto di vimini che stava appeso dietro la porta.»
Vi fu un silenzio. George disse, ma piuttosto dolcemente:
«Forse non hai guardato nel posto giusto. Forse qualcuno lo ha spostato.»
Erano tutti a disagio, come se fossero di fronte a qualcosa d'imprecisabile. Grainger disse, con forza:
«È ridicolo! Assolutamente ridicolo.»
Jane disse: «Mi domando...»
«Che cosa?»
«Lei ha detto che qualcuno può averlo spostato. Potrebbe averlo preso Andy... prima che succedesse tutto questo. Per giocare, magari. E Ruth potrebbe averlo visto con il cesto in mano. Così, questa mattina, ha immaginato di vederlo nello stesso modo.»
L'atmosfera si rischiarò di colpo. Grainger disse, in tono di elogio, rumorosamente:
«Ci vuole una donna per trovare la spiegazione logica. Certo, è così. Non può essere sicura che ieri il cesto non ci fosse, vero, Mandy?»
«No.»
Era vero: non poteva esserne sicura. D'altra parte, aveva l'impressione che ci fosse stato. E poi c'era un'altra cosa di cui non aveva parlato: i viveri scomparsi. Formaggio, gallette, due scatolette di corned beef. Aveva pensato che qualcuno li avesse presi per precauzione, nell'eventualità che rimanessero isolati a lungo e che il cibo cominciasse a scarseggiare. Non le era difficile immaginare Deeping che faceva una cosa del genere. E quella poteva essere la spiegazione. Comunque, era inutile parlarne.
George disse: «Torniamo alla cosa più importante... trovare Ruth e riportarla qui. Probabilmente ha ragione Selby: deve essersi diretta oltre la valanga. Del resto, nelle altre direzioni l'avremmo già vista. È meglio che andiamo tutti, no?»
Mandy trovò il caos in cucina, e Marie che piangeva in silenzio. Gli avvenimenti l'avevano sconvolta: l'isolamento improvviso, la morte del bambino, la signora che aveva urlato di notte... e adesso la pasta per il pane che Madame le aveva detto di preparare non voleva saperne di lievitare. La pasta era lì, sulla piastra sopra la cucina, coperta da un telo che stava per cadere. I tavoli e il pavimento erano in disordine. Mandy calmò la ragazza, le preparò un caffè forte con l'acqua che per fortuna stava già bollendo in un bricco, e si mise all'opera per ripulire tutto. La spiegazione per la pasta che non lievitava era semplice: Marie aveva dimenticato il lievito. Per fortuna, le scorte di farina erano abbondanti; e probabilmente lei avrebbe potuto aggiungere alla pasta un po' di grasso per ricavarne dei dolci: non del tipo di cui andava tanto orgogliosa, ma almeno commestibili.
Aveva appena ristabilito una parvenza di ordine quando si sentì chiamare dal corridoio. Era la voce eccitata di Diana. Ma era un'eccitazione lieta, pensò Mandy, mentre andava a vedere cos'era successo. Diana l'incontrò davanti alla porta che dava nel bar, e la tirò dentro.
«Guardi!»
Indicò qualcosa, fuori dalla finestra. Dalla direzione della valanga stavano arrivando i quattro uomini. E Ruth... Mandy spalancò gli occhi, incapace di credere a ciò che pure vedeva benissimo. George, tra le braccia robuste, reggeva una piccola figura in pigiama. Andy. E il bambino era vivo. Su questo non c'era dubbio. Lo vide girare la testa per guardare la madre.
C'era anche Jane. Mandy disse:
«Non capisco. Come può essere...?»
L'ondata di felicità e di sollievo era così grande che Mandy si sentì colmare gli occhi di lacrime. Sollievo e rimorso. Disse, rimproverandosi:
«E noi volevamo impedirle di uscire a cercarlo... Lei sapeva. Ma il bambino sarebbe potuto morire, mentre noi la tenevamo in casa.» Sbatté le palpebre, vigorosamente. «Debbono essere tutti e due assiderati. Andrò a preparare qualcosa di caldo.»
Mentre lei si voltava, Jane disse, stupita:
«Il cesto...»
Mandy tornò a guardare. Il bambino, stretto tra le braccia di George, teneva in mano il cesto scomparso dalla cantina. Esclamò, felice:
«Visto? Ruth aveva ragione anche in questo.»
«Non ha senso,» disse Jane.
«Non importa! Devo andare a preparare qualcosa.»
Lo disse a Marie, che si mostrò incredula quanto lo era stata lei e che poi, quando accettò la verità, si mise a piangere. Quando sentirono aprirsi la porta d'ingresso, uscirono entrambe e raggiunsero le altre due donne, per accogliere il gruppo che rientrava. Andarono in salotto, e si muovevano e ridevano e parlavano, tutti insieme. Mandy andò a prendere il bambino dalle braccia di George, ma Ruth la precedette.
«Lo dia a me,» disse. La sua voce era pesante, impastata, forse nella calma plumbea che succedeva alla tensione. «Adesso posso occuparmene io.»
Mandy aveva toccato il volto del bambino.
«È così freddo!» disse. «Lo porti vicino al fuoco. Spingi avanti il divano, George. Dobbiamo scaldarlo.»
«Sto benissimo,» disse Andy. «Non ho freddo.»
Sentirlo parlare non era meno straordinario che vederlo. Mandy ricordò la figuretta bianca, apparentemente morta, del giorno innanzi, e non riuscì a ricollegarla al bambino che si vedeva davanti, vivo. Sebbene fosse così freddo, non rabbrividiva. Mandy si voltò a guardare gli altri.
«Ma dov'era? Come avete fatto a trovarlo?»
George rispose, in tono esuberante: «L'ha trovato Ruth. Erano seduti vicini, sulla neve, quando ci siamo imbattuti in loro. Erano appena oltre la valanga.»
«Ma avevamo già guardato, là!» disse Jane. «Abbiamo cercato dappertutto, questa mattina.»
Grainger fissava il bambino, ed era profondamente perplesso. Era una bella lezione per i dottori, pensò lieta Mandy. Lui aveva detto che il bambino doveva essere morto. Ma anche i medici sbagliavano. Probabilmente lui era un po' irritato. Ma anche loro sbagliavano. La vita aveva ancora le sue sorprese. Si sentì di nuovo gli occhi pieni di lacrime.
«Quel piccolo birbante si era sepolto nella neve, a quanto pare,» disse George. «Ecco come ha fatto a resistere. Sotto una bella coltre di neve. E aveva con sé le provviste, così non gli è mancato il nutrimento.»
«Ma perché?» chiese Jane. «Perché è uscito nella neve? Che cos'è successo?»
Con voce inespressiva, Ruth disse: «È stato lo choc, credo. Ha ripreso i sensi in cantina e si è trovato solo. Non sapeva quel che faceva. Suppongo che l'ultima cosa che ricordava fosse che lui era là fuori, vicino alla valanga. Ed è tornato là. Era in preda allo choc, capite.»
Grainger disse: «Ma non fino al punto di dimenticare di prendere un cesto e di riempirlo di provviste, prima di andarsene.»
«Non c'è limite a quello che si può fare, quando si perdono i sensi,» disse George. «Ho conosciuto un tale che riportò alla base un Lancaster con due motori fuori uso e tre quarti dei comandi saltati. E non ricordava niente, dopo che la contraerea l'aveva colpito sopra Berlino.»
«Non è la stessa cosa,» disse Grainger, sottovoce. «Quello continuava un'azione di routine.»
«Non proprio di routine.»
«O almeno, non era una cosa irrazionale. Ruth, sarebbe bene che io gli dessi un'occhiata.»
Ruth pareva riluttante a staccarsi dal bambino: era naturale, pensò Mandy. Si ricordò all'improvviso che aveva avuto intenzione di preparargli qualcosa di caldo e di nutriente. Aveva in serbo ancora un paio di uova. Sbattute con latte caldo, e un po' di brandy... Sgattaiolò via mentre Grainger si avvicinava al bambino.
Quando lei tornò con la bevanda, Grainger stava terminando la visita. Era accigliato, come se cercasse di risolvere un problema in una lingua poco nota. Mandy gli passò davanti e porse il bicchiere al bambino.
«Cerca di buttarlo giù tutto,» disse. «Non è troppo caldo. Dopo ti sentirai meglio, vedrai.»
Il bambino bevve, obbediente. Grainger disse:
«Il polso è lento, il battito cardiaco anche. Ed è incredibilmente freddo.» Si rivolse a Ruth. «Credo che dovremmo metterlo subito a letto e tenercelo. Mi piacerebbe avere qui qualche collega, per dargli un'occhiata.»
«Adesso sta bene,» disse Ruth. Parlava con voce incolore, ma convinta. «Mi occuperò io, di lui.»
Mandy disse: «Lo so. Ma starà meglio nel suo letto, no? Ecco, ha bevuto tutto. Va un po' meglio, Andy? George lo porterà di sopra.»
«No,» disse Andy. Anche la sua voce suonava strana, ma era logico, dopo tutto quello che aveva passato. «Posso camminare da solo, grazie.»
«Se te la senti...»
Il bambino prese la madre per mano: uscirono insieme dalla stanza. Mandy disse a Ruth:
«Le porterò su qualcosa da bere.»
«Non si disturbi.» La donna diede un'occhiata a Deeping, che li seguiva. «Lo condurrò su e ci sdraieremo un po'. Abbiamo soprattutto bisogno di riposo.»
Deeping esitò, poi annuì: «Sicura che non ti occorre altro?»
«Sicura.»
Madre e figlio salirono, lentamente, come se fossero molto stanchi. Dovevano esserlo davvero, pensò Mandy. A Ruth, qualunque cosa ne dicesse lei, avrebbe fatto bene qualcosa di caldo. Una tazza di tè, magari con un goccio di rum.
Tornò in cucina e preparò il tè. Il bricco sobbolliva ancora sulla stufa. Mentre aspettava che il tè venisse pronto, bevve rapidamente un sorso dalla bottiglia con l'etichetta dell'aceto che teneva dietro al barattolo dello zucchero vanigliato. La rimise a posto un attimo prima che arrivasse Marie. Riscaldata e rasserenata, disse alla ragazza di farsi dare un po' di rum da Monsieur, versò il tè, aggiunse una dose generosa di liquore, e le diede la bottiglia da riportare a George.
Decise di portare lei stessa il tè a Ruth. Stava salendo la seconda rampa di scale, quando sentì la voce di un bambino risuonare acuta, allarmata. Non la voce di Andy, però... di Stephen. Si affrettò, rovesciando un po' di tè sul piattino. La porta della camera dei Deeping era socchiusa, e lei poté rendersi conto della lotta che si svolgeva nell'interno. Spinse l'uscio con il gomito. Andy e sua madre erano ai lati di Stephen e lo tenevano fermo; anzi Ruth era china come se lo respingesse sul letto da cui tentava di alzarsi. I due si girarono a guardarla quando lei entrò, muovendosi stranamente all'unisono. Lasciarono Stephen, che subito si buttò giù dal letto e corse pazzamente verso Mandy. Le urtò lo stomaco con la testa e la strinse, singhiozzando.
«Su, piano, piano,» disse lei. «Mi fai rovesciare tutto il tè.»
Sopra la testa del bambino, passò la tazza a Ruth che la prese tenendo gli occhi inchiodati su Stephen. Ruth disse:
«Si è svegliato all'improvviso, e si è spaventato.» La voce era aspra, tesa. «Vedendo Andy... deve aver pensato...»
«Poverino,» disse Mandy. Gli accarezzò la testa, per consolarlo. «Ma Andy sta bene, sai. Non devi preoccuparti. Nessuno ha più motivo di preoccuparsi.»
Stephen mormorò qualcosa d'incomprensibile contro il suo grembiule. Mandy si chinò su di lui, gli prese gentilmente il viso tra le mani. Il bambino alzò la testa, prontamente. Come se fosse rassicurato da ciò che vedeva, disse:
«Voglio scendere con lei. La prego, Mrs. Hamilton.»
Mandy guardò Ruth. «Credo che ormai si possa alzare, no? Ha dormito abbastanza.»
«Sì, abbastanza.» Ruth tese le mani verso il bambino. «Lo manderò giù quando si sarà lavato e vestito. Grazie per il tè.»
«No!» esclamò Stephen. Si girò verso la madre, tenendosi stretto a Mandy. «Non voglio stare con te.»
Ruth sembrava soprattutto incollerita. E anche questo era comprensibile. Dopo quello che aveva passato per il figlio minore — crederlo morto, e poi scomparso, e infine ritrovarlo nella neve — doveva avere i nervi a pezzi. Ma anche per il piccolo Stephen era stato terribile. Il fratellino morto, la madre impazzita per il dolore, e poi scoprire Andy accanto al letto che lo toccava... Andy che era sempre stato il preferito.
Mandy disse a Ruth: «Si riprenderà, non appena si sarà svegliato del tutto. Ma mi occuperò io di lui, mentre lei mette a letto Andy. I vestiti sono nella stanza accanto, no?»
Ruth fissò lei, poi il bambino, poi volse le spalle a entrambi. «Va bene.» La sua voce era fredda. «Allora lo lascio a lei.»
Passarono nella stanza che era stata dei bambini, e Mandy chiuse la porta. Ricordando il pudore dei ragazzini in età prepuberale, gli disse:
«Là ci sono i tuoi vestiti, Steve. Vuoi che ti lasci solo mentre ti vesti e ti lavi? Io scenderò a prepararti qualcosa per colazione.»
«No!» Nella voce del bambino c'era una sfumatura di spavento. «Per favore, resti qui.»
«Come vuoi. Però dovrai prepararti in fretta, perché ho tante cose da fare, giù.»
«Farò prestissimo,» promise lui, di slancio.
Mentre il bambino si vestiva, Mandy guardò fuori dalla finestra. Le cime lontane erano nitide, bianche contro l'azzurro, ma ad una quota più bassa cominciavano a formarsi le nuvole, che si addensavano nella valle sotto di loro. Laggiù doveva essere una giornata grigia e cupa.
«È meraviglioso che sia tornato Andy, no?» disse.
«Sì.» La voce di Stephen era indistinta.
«Qualche volta succede. Agli animali e agli uccelli, oltre che alla gente. Ricordo che una volta andai a fare una passeggiata con mio padre. Era una giornata fredda, d'inverno. Trovai uno scricciolo, sul ciglio del sentiero, con le zampette all'aria, irrigidito. Me lo misi in tasca... volevo seppellirlo, arrivata a casa. Ma poco prima di arrivarci, sentii qualcosa che si agitava nella tasca, ed eccolo lì, era vivissimo. Lo tirai fuori, e lo scricciolo mi beccò le dita e volò via.»
Ricordava la felicità che aveva provato: la sensazione di avere donato calore e vita, come se una parte di lei si fosse trasfusa in quella piccola creatura, si fosse involata su quelle ali improvvisamente rinate. Ci pensò, con rinnovata gioia. Non le dispiaceva pensare a quei giorni. Erano così lontani. E non avevano tradito nessuno, fatto soffrire nessuno.
Si voltò. Stephen era vestito e cercava di pettinarsi, guardandosi nello specchio sopra il lavabo, con il volto chiuso nella concentrazione e nella frustrazione. Mandy si sentì commossa.
«Lascia che ti aiuti, Steve.» Lui lasciò fare, paziente. «Ecco. Stai benissimo. Adesso andiamo a vedere la tua mamma e Andy, prima di scendere.»
Il bambino scosse il capo. «Preferisco di no.»
«Bene, allora andiamo a fare colazione.»
Quando arrivarono al ballatoio del primo piano, Mandy sentì un rumore e alzò la testa. Ruth li guardava dall'alto. Sembrava stanca: i suoi occhi tradivano lo sfinimento e una sorta di vuoto.
«A Steve pensiamo noi,» disse Mandy. «Lei vada a letto e cerchi di riposare.»
Dopo gli allarmi e le ricerche con cui era incominciata, la giornata stava tornando alla normalità... per quanto poteva essere normale l'isolamento dal resto del mondo. George organizzò una sortita per andare a vedere se avevano incominciato a riaprire la strada di Nidenhaut. Prese gli sci e condusse con sé Grainger e Diana, che all'ultimo momento aveva insistito per accompagnarli. Grainger chiese a Elizabeth, che era finalmente scesa, se non voleva andare anche lei, ma quella scosse il capo, nascondendo uno sbadiglio.
«Sono ancora troppo stanca. Se riuscite ad arrivare fino al villaggio, portami qualche florentine dalla pâtisserie. Ne ho una voglia pazza.»
«Niente da fare.» Grainger guardò la moglie con aperta, immutata ammirazione. «Stai ingrassando troppo.»
Elizabeth gli sorrise, al di sopra della testa di Diana, tanto più piccola di lei.
«Tesoro, sai bene che io sono la tua figura materna.»
All'ora di pranzo, i tre tornarono a riferire quel che avevano scoperto. La strada era ancora completamente ostruita, e la curva della parete rocciosa aveva impedito loro di vedere come andavano le cose più a valle. George aveva provato ad avventurarsi sul pendio formato dalla valanga, per vedere se era possibile attraversarla, ma la neve aveva cominciato a scivolare e lui aveva rinunciato al tentativo. Mandy, ascoltandolo, si sentì nel contempo sollevata e irritata. George si esponeva sempre troppo.
Douglas Poole chiese: «Non avete sentito nessun movimento dall'altra parte?»
«No,» fece George, scuotendo il capo con enfasi. «Non dall'altra parte. Si sentivano dei rumori, come se sgombrassero la neve, ma era molto lontano. Probabilmente c'è almeno un altro tratto di strada da liberare, prima di arrivare a questo.»
Deeping osservò: «Dunque siamo bloccati qui indefinitamente.»
Il solito tono burbero, scomparso dopo il collasso di Andy, il giorno innanzi, era ricomparso nella sua voce. George lo guardò irritato e disse:
«Sì. Per fortuna siamo ben provvisti di viveri. E di buona compagnia. A proposito, Ruth e Andy non scendono a pranzo?»
Mandy disse: «No, Andy dorme ancora, e Ruth vuol restare con lui. Dice che non ha fame. Terrò da parte qualcosa anche per loro.»
Deeping disse, con voce querula: «Neanch'io ho molta fame. Una notte insonne mi sconvolge sempre lo stomaco. Non prendo il dolce, Mandy. Solo il caffè.»
Mandy sospirò. «Ecco un'altra cosa. Dovremo stare attenti, se ancora non hanno sgombrato la strada. Caffè al mattino e dopo cena, ma dovremo rinunciare a berlo dopo pranzo, purtroppo. Per fortuna, non siamo a corto di tè.»
Deeping si alzò da tavola. «Io avrei preferito il caffè,» disse, «ma immagino che non possiamo farci niente.»
«No,» disse George. «Proprio niente. A proposito, le ho fatto il conto fino a ieri pomeriggio. Da allora, vitto e alloggio sono a carico mio.»
Deeping lo guardò arrossendo. «Non è necessario. Posso pagare.»
«Non ci pensi,» disse George.
Quando lo trovò solo, più tardi, Mandy disse: «Sei stato scortese con lui, George. Ha passato dei gran brutti momenti nelle ultime ventiquattro ore, con Andy e Ruth.»
«Non parlarmi di quel bastardo. 'Io avrei preferito il caffè'. L'unica persona per cui si preoccupa è Len Deeping.»
Mandy gli fece segno di tacere: Stephen era fermo sulla soglia della cucina. «Che c'è, Steve?»
«Le dispiace se scendo, Mrs. Hamilton, a giocare alle corse?»
Il gioco delle corse era un vecchio Escalado, che veniva tenuto insieme ad altri, per far passare il tempo durante le brutte giornate, in una stanza della cantina che veniva chiamata, con un certo ottimismo, sala-giochi.
«Ma certo,» fece lei. «Sei capace di montarlo?» Il bambino annuì. «Non restare troppo laggiù, o prenderai freddo. C'è solo un piccolo termosifone.»
E quello era il motivo principale per cui la sala giochi veniva poco usata durante i mesi invernali. Come aveva fatto altre volte, Mandy disse a George: «Dobbiamo provvedere a migliorare il riscaldamento, prima dell'inverno prossimo.»
«La caldaia è già spinta al massimo. È più importante tenere calda la parte superiore dello chalet.»
«Avremmo dovuto mettere una caldaia più grande.»
«Il guaio è che siamo a corto di capitali. E per il momento non guadagnamo molto, specie adesso che per dignità non faccio pagare niente ai Deeping, e gli ospiti che avrebbero dovuto prendere il loro posto stanno rimpinguando le tasche al vecchio Mueller, al Buffet de la Gare, a Nidenhaut. Forse dovremmo mandare un cablogramma a zia Mandy.»
Lei sorrise a quell'abituale battuta scherzosa, l'unica allusione al suo mondo americano che loro due si permettevano normalmente. Zia Mandy, sposata a diciannove anni con un ricco proprietario di miniere di carbone, e ormai vedova da quasi cinquant'anni, aveva scritto una lettera alla nipote che portava il suo stesso nome, quando aveva saputo che aveva abbandonato il marito per mettersi con George. Era una lettera lunga, ma più in tono affaristico che moraleggiante. Zia Mandy aveva elencato le sue proprietà, le aveva valutate, ed era arrivata alla somma di trecentoventiduemilasettecentocinquanta dollari. Era il patrimonio che, nel precedente testamento, aveva lasciato alla cara nipotina Mandy. Era stato sostituito, però, da un nuovo testamento, spiegava la zia con un linguaggio raffinato e poco americano, acquisito dall'Accademia per Signorine di Miss Hudnut, a Boston. E desiderava informare Mandy che in questo il suo nome non figurava.
«Ti dispiace essere povero?» chiese Mandy a George.
Lui sogghignò. «Questo dovrei essere io, a chiederlo.»
E naturalmente aveva ragione: avrebbe dovuto essere lui a chiederlo.
Mandy sorrise di nuovo. «Non mi preoccupa. Non mi preoccupa affatto.»
«Che cosa ti preoccupa, Mandy?»
George parlava dolcemente. Lei sapeva cosa intendeva dire, e avrebbe voluto essere in grado di rispondere. Era così buono. Lo aveva capito subito, quando l'aveva conosciuto, e adesso lo sapeva con maggiore certezza, perché lo vedeva più chiaramente, non più accecata dal sentimento che l'aveva sopraffatta ed esaltata e distrutta.
«Niente,» disse. «Non c'è niente che mi preoccupi. Tesoro, vai a occuparti dei nostri ospiti: io devo badare alla cucina.»
Ruth scese dopo un po', portando Andy con sé. Mandy le chiese se volevano pranzare, ma lei rifiutò.
«Ma Andy deve mangiare qualcosa,» insistette Mandy. «Questa mattina non ha preso altro che latte e uova.»
«No. Cioè, ha mangiato della cioccolata, di sopra. Dove sono gli altri?»
«Quasi tutti fuori a sciare. Ma credo che suo marito sia in salotto.»
«E Stephen?»
«È sceso a giocare con l'Escalado.»
«Allora andremo a cercarlo.»
Mandy li guardò uscire, vagamente inquieta. Camminavano ancora tutti e due in quel modo strano... lento, deliberato, sembrava indicare che non si fossero ripresi a sufficienza dagli eventi recenti. E avrebbero dovuto mangiare qualcosa. Pensò che forse era meglio seguirli, e cercare di convincere almeno Andy: dopo quello che aveva passato aveva bisogno di cibi caldi, nutrienti. Ma decise di non farne niente. Ruth era una donna non molto più giovane di lei, e aveva le sue idee. Si sarebbe offesa se qualcun altro avesse preteso di conoscere meglio di lei le esigenze di suo figlio.
Stava guardando la nuova infornata di pane che aveva appena tirato fuori, quando sentì il grido. Era indistinto, ma riconobbe la voce di Marie. Ma dov'era? Fuori? Poi ricordò: l'aveva mandata giù in dispensa a controllare varie cose, prima di pianificare i pasti dei giorni successivi. La voce chiamò ancora: «Madame!» Mandy scostò l'ultima piastra e scese correndo le scale.
La voce era più forte e invocava aiuto. E c'erano altri suoni. Provenivano dalla sala giochi. Attraverso la porta aperta vide un groviglio di figure che lottavano: Ruth, Marie, i due bambini. Non riuscì a capire cosa fosse accaduto e, frastornata, gridò:
«Che c'è? Cosa succede?»
I volti delle due donne si girarono verso di lei, quando varcò la soglia. Quello di Marie era sconvolto e spaventato. Quello di Ruth... Ciò che vide in quell'istante l'inorridì. Non era odio, ma freddezza, un vuoto orribile. E... fame. La spaventò, ma lei avanzò egualmente di un passo.
«Ruth...» disse.
Vi fu un momento di equilibrio, d'immobilità, e poi si spezzò. Due figure piombarono verso di lei: non solo Ruth, ma anche il piccolo Andy. Erano impazziti tutti e due, pensò e si ritrasse. Avrebbe voluto gridare aiuto, ma non poté. Si avventarono verso di lei, la raggiunsero, scaraventandola da parte, passarono. I loro passi si persero nel corridoio, in direzione della porta della cantina. Marie piangeva, l'altro bambino era sbiancato in volto. Mandy si scosse, e andò verso di loro.
VI.
Lo sci non era fatto per lui, aveva stabilito Douglas. Era una decisione raggiunta in via dubitativa ai suoi primi tentativi, durante il servizio militare, ma gli anni trascorsi avevano cancellato il ricordo. Adesso stava imparando daccapo che il suo senso dell'equilibrio non era eccellente, e che faticava ad abituarsi alla perdita di contatto con il terreno solido. E naturalmente quella neve, su cui finiva sempre per cadere pesantemente, era più fredda ed umida di quanto si potesse immaginare guardandola.
Adesso che aveva rinunciato a sforzarsi di non pensare a Caroline, poteva essere onesto con se stesso per quanto riguardava la vera ragione per cui era venuto lì. Tony, il marito di lei, era un abile sciatore; le due settimane ogni anno, in gennaio, erano state una tristezza che gettava la sua ombra sul Natale, già di per sé così triste, da superare cupamente e senza protestare. Caroline aveva sempre detto che non le piaceva andar via, ma lui aveva sospettato che non fosse del tutto vero. Caroline era fisicamente efficiente, ed era inevitabile che le piacesse sciare. Probabilmente stava sciando anche adesso, negli Stati Uniti. Di sicuro, c'erano stazioni invernali a poca distanza da New York. E lui era lì, a pasticciare sui facili pendii di una montagna svizzera... Era ridicolo.
Non era mai riuscito a capire quale parte avesse nella vita di lei. Talvolta pensava di essere qualcosa d'importante, talvolta qualcosa di trascurabile. Le aveva creduto, e le credeva ancora adesso, quando lei diceva che, a parte Tony, era stato il solo uomo della sua vita. Caroline non era il tipo di donna che si dava da fare per attirare l'attenzione maschile. E quella certezza, all'inizio, gli aveva dato un senso di trionfo e di sicurezza. C'era il bambino, ma aveva quattro anni — lei si era sposata molto giovane — e a otto avrebbe dovuto andare alla vecchia scuola di Tony. All'inizio, Douglas non aveva insistito per ottenere assicurazioni circa il futuro, perché aveva presunto di sapere come sarebbero andate le cose. Quando Rodney fosse stato via per due terzi dell'anno, niente avrebbe potuto nasconderle quant'era vuoto il suo matrimonio. Tony, che lui aveva incontrato un paio di volte, era un uomo simpatico, civile. Le avrebbe accordato il divorzio, se lei lo avesse chiesto.
Un paio d'anni più tardi, la sua sicurezza aveva incominciato a sgretolarsi. Non perché lei mostrasse di volersi tirare indietro, perché sembrava innamorata come sempre, disponibile per quanto lo permettevano le esigenze della sua vita: ma era stato, piuttosto, un crescente senso di coinvolgimento da parte sua. Non si accontentava più di attendere in ufficio le telefonate che gli annunciavano quando avrebbe potuto vederla. E lei gli aveva proibito di chiamarla... poteva rispondere la cameriera, sua madre veniva spesso a trovarla, Tony rientrava talvolta ad ore strane. Lui all'inizio aveva accettato abbastanza di buon grado quel divieto, ma all'improvviso gli era diventato insopportabile. Si sentiva sempre più legato alla vita di Caroline, anzi, legato alla cameriera, a sua madre, persino a Tony; mentre lei era libera.
La prima crisi avvenne non quando Douglas le chiese di andarsene con lui, ma un paio di settimane più tardi. Glielo chiese nella fresca camera da letto azzurra e bianca della casa di Blackheath, mentre Tony era a Parigi, la cameriera aveva il pomeriggio libero, e la madre era andata a trovare l'altra figlia dall'altra parte di Londra: e Caroline aveva sorriso, e aveva detto che sarebbe stato bello, se avessero potuto farlo. Quando le aveva chiesto perché non potevano, lei aveva detto, naturalmente, che era per via di Rodney. Anche quel pomeriggio lei aveva dovuto mandare un'amica a prenderlo a scuola, e a portarlo a prendere il tè insieme al suo bambino. Lui le aveva posato le mani sul seno e aveva detto: «E va bene. Ma quando lui andrà via... Prometti?» Avrebbero visto, aveva risposto Caroline, e come sempre, lui aveva ammirato la sua onestà. Lei non avrebbe mai fatto una promessa a vuoto. Sarebbe stato bellissimo, ma potevano capitare tante cose. Avrebbe visto. Poi lei aveva fatto guizzare la lingua, e i capezzoli si erano irrigiditi contro le dita di Douglas.
Ma lui se ne era andato insoddisfatto, turbato, e l'insoddisfazione e il disagio erano cresciuti durante la settimana successiva, in cui non l'aveva più vista e non le aveva parlato. Quando poté rivederla, nel proprio appartamento, perché lei era andata ufficialmente a trovare la zia di Winchester che era stata la causa del loro primo incontro, lui era nervoso e deciso. Quella vita non andava bene. Doveva esserci una stabilità, se non subito almeno in un futuro prevedibile: se questo non era possibile, allora era meglio rompere, senza rancore.
Douglas non sapeva quale reazione si aspettasse da lei: ma si rese conto che quella era in effetti l'unica reazione possibile da parte di Caroline. Lei non aveva consentito e non si era irritata. Gli aveva detto, ed era la verità, che gli dedicava tutto il tempo che poteva. In futuro le cose potevano cambiare, ma nessuno poteva averne la certezza. La vita era troppo imprevedibile.
In quel caso, aveva detto lui, era meglio farla finita subito. Lei aveva sorriso, tristemente, e aveva detto: «Come credi.» C'era stato un silenzio, non imbarazzante ma opprimente, un peso sulla mente e sul corpo. Sopra la mensola, l'orologio a quattrocento giorni di carica continuava a far girare le piccole sfere d'ottone, in senso orario e antiorario, scandendo i secondi divenuti improvvisamente più lunghi. «Le tre,» aveva detto Caroline. Il suo sorriso era malizioso, stavolta. «Il mio treno non parte che alle sei.» Non gli era mai sembrata più desiderabile. Douglas aveva detto: «C'è un diretto per Waterloo alle tre e mezzo.» «Bene,» aveva detto lei, senza smettere di sorridere, «Mi accompagni tu alla stazione, o debbo andare da sola?»
Lui le aveva telefonato tre settimane dopo, infrangendo la proibizione. Si era sentito la bocca arida, e parlandole non riusciva a trovare le parole. Caroline non si era arrabbiata. Anzi, sembrava compiaciuta, benché parlasse solo a frasi brevi, impersonali. Lo aveva interrotto, dicendogli che l'avrebbe richiamato lei quando avrebbe avuto tempo.
Lo aveva chiamato la mattina dopo. Poteva vederlo a Londra, per il week-end. Fissarono il luogo e l'ora. Douglas la portò nel suo albergo, e fecero l'amore. Lui cercò di spiegarsi, di scusarsi, ma lei gli chiuse la bocca con la mano. Non c'era niente da spiegare, insistette. Niente da discutere.
C'era stata un'altra crisi l'anno in cui Rodney era andato via, a scuola. Ebbe lo stesso andazzo, ma lui attese solo due giorni, questa volta, prima di telefonarle. E l'anno dopo non l'aveva neppure lasciata andar via: l'aveva rincorsa per la strada, stupidamente, come uno studentello. Ora che ci ripensava, era stupito del livello di banalità cui l'aveva ridotto la relazione con lei. E adesso l'assurdità finale, il viaggio in Svizzera per andare a sciare! Mentre si rialzava, forse per la ventesima volta, cominciò a sganciarsi gli sci con le dita intirizzite.
Jane lo chiamò: «Rientra?»
Douglas alzò la testa. «Sì.»
«Anch'io ne ho avuto abbastanza.»
Tornarono insieme verso lo chalet, e misero gli sci nella rastrelliera. Era consolante pensare, rifletté Douglas, che al mondo c'erano ancora donne simpatiche e attraenti. Era una consolazione e una sfida. Piombando nell'infelicità, si interrogò su di un aspetto del suo futuro. Prostitute? Relazioni tempestose con qualche dattilografa? Oppure una moglie? Una donna adatta a lui, di bell'aspetto, ragionevole, non troppo giovane. Una donna come Jane. Le vedove giovani e belle erano sempre state considerate molto adatte, no?
La porta si aprì prima che la raggiungessero. Era Mandy, ansimante, sconvolta.
«L'avete vista? Ruth?» domandò.
«No. Perché.»
«Credo che sia impazzita. E anche il bambino.»
L'evidente confusione di Mandy lo fece sentire confuso a sua volta, e smarrito. Fu Jane a prendere in pugno la situazione. Disse, calma:
«Ci racconti cos'è successo, Mandy.»
Douglas ascoltò, e capì che Ruth era impazzita, o quasi, il che non era del tutto sorprendente. Ma nel comportamento di Andy c'era qualcosa che non aveva senso. Ruth aveva lasciato lo chalet e l'aveva portato con sé? Be', sì probabilmente era così. Jane, volgendosi verso di lui, disse in tono energico:
«Io resto con Mandy. Lei può chiamare gli altri? Selby, almeno.»
Douglas annuì. «Sì, certo.»
Gli altri arrivarono quasi subito. Diana alle calcagna di Grainger, ed Elizabeth una ventina di metri più indietro. Aveva il volto acceso dall'aria frizzante e dal movimento e, pensò lui con distacco, era molto carina.
«Il tè?» Lei si tolse il berretto e scrollò i riccioli scuri. «Mi sembra un po' presto.»
Douglas parlò a Grainger: «Altri guai, purtroppo. Con Ruth. Non so bene cosa sia successo.»
Jane era con Mandy in salotto, e c'era anche Deeping. Lui aveva un'aria desolata: tutta la presunzione e la sicurezza era svanite. Benché quell'uomo non gli fosse simpatico, Douglas provò pietà per lui. Un'altra brutta storia.
Grainger chiese, in tono autorevole: «Dunque, Mandy. Ci racconti: cos'è successo?»
George entrò mentre lei parlava. Quando ebbe finito, disse:
«Ho visto Marie. È con Steve. Stanno bene tutti e due. Un po' sconvolti, ma sani e salvi.»
Diana disse: «Io li ho visti. Salivano la montagna, dietro allo chalet. Ho pensato che... be', che stessero solo facendo una passeggiata.»
«Faremmo bene ad andarli a prendere,» disse George.
Grainger alzò una mano. «Fra un momento. Mandy, che aria aveva Ruth? Che espressione?»
«È difficile descriverla. Vuota, vacua... eppure come se volesse... non so che cosa.»
«Senta,» disse George, «a questo può pensare dopo. Adesso l'importante è trovarli e riportarli qui, prima che si facciano del male. Ruth ha con sé il bambino, dopotutto.»
Grainger disse: «Io voglio sapere prima che cosa cerchiamo.»
George ribatté, spazientito: «Una donna cui ha dato un po' di volta il cervello, logicamente.»
«E il bambino?»
«Ruth l'ha portato con sé. Anche questo è comprensibile. Ma per lui è pericoloso.»
Grainger si rivolse a Mandy. «Ma non è esatto, no? Ruth non lo ha portato con sé. C'è andato da solo. E che espressione aveva, lui?»
Mandy chiuse gli occhi, come per non vedere qualcosa. Rispose a voce bassa.
«La stessa di Ruth. Vacua, e come se volesse qualcosa.»
«Te lo sei immaginato,» le disse George. «Dopotutto, li hai visti solo per un momento. Poi Ruth si è precipitata fuori, e il bambino l'ha seguita. È logico.»
Grainger chiese: «Crede di averlo immaginato, Mandy?»
Lei scosse il capo senza dir nulla. George sbottò:
«Sentite, non ha senso!»
Mandy disse: «Mi chiedevo...»
«Cosa?»
«Se poteva essere una malattia... che Andy ha preso per primo, e che Ruth ha preso da lui.» Guardò Grainger. «È possibile?»
«In teoria sì. D'altra parte, i sintomi non corrispondono a nessun genere di malattia che io conosca. E come possono entrarci il collasso e il coma del bambino?» Tacque un istante. «Vorrei vedere Marie. E Steve.»
«Vado a chiamarli,» disse Mandy.
George disse: «Io non ho il suo interesse professionale, Selby.» Le sue guance erano chiazzate di rosso. «Io esco con Peter, a cercare Ruth e quel povero bambino. Viene anche lei, Len?»
«Sì,» disse Deeping. «Vengo.»
Grainger osservò, con calma: «Basterete voi tre, credo. Se riuscirete a trovarli.»
«E perché diavolo non dovremmo riuscirci?»
«Pensavo all'altra volta. C'è voluto parecchio per ritrovare il bambino. Anzi, non l'abbiamo affatto ritrovato. È ricomparso insieme a Ruth.»
«E cosa potrebbe significare?»
«Non lo so.» Grainger aveva un'espressione cupa. «Vorrei saperlo.»
Se George gli avesse chiesto di andare con lui, Douglas avrebbe accondisceso. Ma George si precipitò fuori dal salotto, senza guardare in faccia nessuno. Deeping lo seguì ma, date le circostanze, Douglas non si sentiva di fare altrettanto. Come aveva detto Grainger, in tre avrebbero dovuto riuscire a trovare la donna e il bambino, in pieno giorno. E gli interessava vedere cosa cercava di scoprire Grainger. E c'era anche di mezzo una certa disaffezione personale: per il momento ne aveva avuto abbastanza, della neve.
Stephen era calmo e composto, quando arrivò; Marie molto meno: sembrava avere dimenticato l'inglese che pure parlava discretamente, e rispose alle domande di Grainger con un torrente di parole francesi. Douglas riuscì a capire ciò che ripeteva con maggior insistenza: che Madame era invasata, e anche il bambino. Glielo avevano sempre detto, che c'erano i diavoli sulle montagne. Nel Friburgo lo sapevano tutti. Una sua compagna di scuola aveva uno zio prete che era andato in un villaggio del Pays d'Enhaut, e molte volte aveva dovuto esorcizzare i diavoli...
«Madame ti ha assalita?» chiese Grainger.
«Perché difendevo il bambino contro di lei.» Si era ripresa abbastanza da parlare di nuovo inglese. «Hanno assalito il bambino. Tutti e due insieme.»
Grainger disse gentilmente a Stephen: «Cos'è successo, ragazzo mio? Prima che arrivasse Marie?»
«È stato come in camera da letto.» Stephen rispose con voce bassa ma chiara. «Quando mi sono svegliato e li ho trovati vicini al mio letto. Tutti e due mi premevano addosso.»
«Credi che cercassero di farti del male?»
«Non lo so.» Il bambino aggrottò la fronte. «Non hanno cercato di... di picchiarmi, o qualcosa del genere. Mi stavano solo addosso. Ma io ho avuto paura. E poi, a toccarli erano strani.»
«Strani come?»
«Era come un formicolio.» Stephen scosse il capo. «Non saprei come dirlo.»
«Ti hanno detto niente?»
«No. È stata una delle cose che mi hanno spaventato di più. Mi fissavano e non dicevano niente.» Il bambino guardò Grainger. «Poi è venuta Marie, ma loro hanno continuato a cercare di tenermi stretto. Poi, quando è venuta Mrs. Hamilton, mi hanno lasciato andare e sono scappati via. Lei sa dove sono andati?»
«Fuori, da qualche parte. Li stanno cercando. Senti, non ti devi preoccupare, Steve. La tua mamma... adesso non sta bene. La gente, qualche volta, fa delle cose strane quando è ammalata.»
«E Andy? È ammalato anche lui?»
«Sì, in un certo senso.»
Grainger fece un cenno a Marie, che condusse il bambino fuori dalla stanza. Poi Mandy disse:
«Dunque è una malattia?»
Grainger trasse un profondo respiro. «Be', sì. Se chiamiamo malattia l'assenza di ciò che viene definita come salute... mentale o fisica. Ma questo non ci chiarisce molto le idee.»
Su questo, Douglas era completamente d'accordo. Era una gran confusione. C'erano malattie che facevano impazzire la gente? Si vergognava troppo della sua ignoranza in fatto di medicina per chiederlo a Grainger; e Grainger, del resto, sembrava frastornato quanto gli altri. Idrofobia... un lupo idrofobo? Ma i sintomi erano senza dubbio diversi, e non c'erano lupi tra quelle montagne; e non c'erano neppure cani più in alto di Nidenhaut.
Jane, come se interpretasse i pensieri di Douglas, disse a Grainger: «Comunque, non si tratta di una malattia che lei può riconoscere... qualcosa di particolare?»
«No,» rispose ironicamente Grainger. «Non la riconosco. Forse se scrivessi un articolo su di essa, sul British Medical Journal,le darebbero il mio nome. La Demenza di Grainger. O forse ha ragione Marie, e tutto andrà a posto quando comparirà un monaco dalla tonaca nera, guidando una schiera di grossi sanbernardo e aspergendo acqua santa.»
«Che cadrà,» mormorò Elizabeth, «in minuscoli ghiaccioli scintillanti. È un pensiero simpatico.»
Diana disse: «Parlando sul serio,Selby. Lei deve avere un'idea di quello che è successo a quei due. Voglio dire... be', dovrebbe.»
«Vuol dire escludendo le malattie ignote alla scienza medica, oltre ai diavoli delle montagne? Non saprei cosa dire, purtroppo. Isterismo contagioso? Ma non avrei mai detto che Ruth fosse un tipo isterico, e un contagio del genere è improbabile. Tuttavia, immagino che sia ancora l'ipotesi più credibile.»
«E quando li riporteranno qui,» chiese Mandy, «cosa dovremo fare?»
«Chiuderli sottochiave, ritengo, fino a quando non potremo condurli giù da questa montagna, in un posto dove possano ricevere assistenza medica adeguata.»
«Insieme?»
«Sì, c'è questo fatto. Niente fa pensare che Ruth intenda fare del male al bambino, tuttavia è un rischio che non si può correre.»
Mandy disse, in tono preoccupato: «Non so proprio dove potremmo metterli... in un posto sicuro. La mansarda, forse. E trasferire dabasso Marie e Peter, da qualche parte.» Guardò Grainger con aria interrogativa. «Ma le finestre non hanno sbarre né altro.»
«A questo si può rimediare facilmente,» disse Grainger. «L'importante, per prima cosa, è riportarli qui.»
George ritornò insieme a Deeping e a Peter, a mani vuote e sconcertato. Andò al bar, lo aprì, e versò da bere agli altri due uomini e a se stesso.
«Oggi apriamo presto,» disse. «Ho l'impressione che non mi farà male un goccetto. Proprio niente male.»
Douglas l'aveva seguito, insieme a Grainger. Il chirurgo disse:
«A me andrebbe bene un whisky, dacché ci siamo. Immagino che non abbiate trovato traccia di quei due.»
George non rispose subito. Versò da bere a Grainger e poi rialzò la bottiglia, fissando Douglas.
«Qualcosa anche per lei?»
«Sì,» fece Douglas. «Un whisky mi andrebbe bene.»
«Allora un cicchetto per tutti,» disse George. «No, non ne abbiamo visto neppure l'ombra. Era quello che lei aveva predetto, no?»
Grainger disse: «Non avevo predetto niente. Diciamo che non sono troppo sorpreso.»
«E va bene. Perché non è sorpreso? Proviamo un po' a fare domande e risposte razionali.»
«Avete trovato le loro tracce?» chiese Grainger.
George disse, disgustato: «Questa maledetta montagna è tutta coperta di orme.»
«Volevo dire oltre lo sperone.»
«Ce ne sono anche lassù. Le abbiamo lasciate noi, durante le ricerche precedenti. Avanti, mi risponda: perché non è sorpreso?»
«Gliel'ho detto: il bambino è sparito per tutto quel tempo. E poi è ricomparso, vispo e in forma. Be', abbastanza vispo e in forma.»
«Perché aveva trovato una buca nella neve e si era addormentato lì dentro. Non vorrà dire che tutti e due abbiano scavato una buca e si siano messi a dormire? Senta, il medico è lei. Dovrebbe essere in grado di capire che cosa è logico e che cosa non lo è.»
«Già, dovrei,» disse Grainger. «Dovrei saperlo. Purtroppo non sono mai stato un credente incrollabile nell'ortodossia come certuni dei miei colleghi. Ha mai sentito parlare del conte Mesmer?»
Gli altri lo fissavano senza capire. Douglas chiese: «Mesmerismo?»
«Un mezzo matto,» disse Grainger. «Cominciò come astrologo, e poi cominciò a far passare delle calamite sul corpo della gente. Alla fine, lo buttarono fuori da Parigi. Ma venticinque anni più tardi, il mesmerismo andava tanto forte che dovettero istituire una commissione d'inchiesta governativa per studiarlo. La Société Royale de Médicine nominò una commissione, formata di uomini prudenti e competenti, e quelli si misero all'opera. Continuarono a riunirsi per sei anni, interrogarono centinaia di persone, e stilarono una relazione.
«Il loro compito principale consisteva nell'indagare sulle possibilità terapeutiche del mesmerismo. E constatarono che esitevano davvero. Ma non si fermarono qui. Dissero che erano dimostrate anche la telepatia e la chiaroveggenza per mezzo del mesmerismo.»
Douglas chiese, incredulo: «Una commissione medica francese affermò tutto questo?»
«Sì, ma poi tutto venne sistemato,» continuò Grainger. «La relazione non venne mai pubblicata. Immagino che stia ancora ammuffendo in qualche archivio parigino. Fu nominata un'altra commissione, presieduta da un tale famoso per aver dichiarato in lungo e in largo che il mesmerismo era una truffa, una ciarlataneria. Esaminarono due soli soggetti, in condizioni piuttosto ostili, e si precipitarono a sfornare una relazione. Quella la Société la stampò. Sentenziava che il mesmerismo era tutto un imbroglio, e che la prima commissione si era lasciata raggirare. E l'indagine scientifica sull'argomento finì lì.»
«Ma c'è l'ipnotismo,» disse Douglas. «È più o meno la stessa cosa, no? Ed è ampiamente accettato.»
«L'ipnotismo,» disse Grainger, «è il mesmerismo, riveduto e corretto. Il fatto è che il mesmerismo comportava ciò che veniva chiamato rapport: la mente dell'operatore e quella del soggetto erano in stretto contatto: il soggetto era immerso in una trance profonda, ma anche l'operatore era immerso in una lieve trance. Alla professione medica moderna piace mantenere una distanza di sicurezza tra dottore e paziente: altrimenti, di quale autorità potrebbe disporre il fratello più debole? Perciò Braid ideò un metodo per ottenere alcuni dei fenomeni mesmerici a mezzo di un controllo a distanza. Scoprì che se si metteva un oggetto luminoso davanti agli occhi di un soggetto e si faceva in modo che questi lo guardasse fissamente, cadeva in qualcosa di simile a un sonno mesmerico. Allora lo si poteva dominare a mezzo della suggestione, indurre l'analgesia, cose del genere, insomma: ma niente che avesse a che fare con la telepatia e la chiaroveggenza... troppo assurde. E soprattutto, escogitò un nome nuovo, derivato da una rassicurante radice greca, come tutti i termini scientifici.»
George fece, irritato: «Non capisco cosa c'entri tutto questo con Ruth e il bambino.»
«Stavo parlando delle mie concezioni personali,» disse Grainger. «Sono convinto che la medicina moderna sia molto efficiente per quanto riguarda la struttura del corpo, ma non altrettanto per quella della mente; ed è decisamente inadeguata circa i rapporti tra l'uno e l'altra. Chiedo scusa se vi ho annoiati, ma cercavo di spiegare perché, pur essendo un medico, in questo caso mi senta frastornato. La mia specializzazione medica è esclusivamente fisica. Non mi sono mai occupato molto della psicologia, perché diffido delle sue premesse.»
«È giusto,» fece Douglas. «Ma è stato lei ad affermare che il bambino era morto, e a dire che dal punto di vista medico era certo che non poteva sopravvivere a lungo là fuori.»
«Non è una cosa straordinaria. Siamo tutti condizionati dalla normalità. Una catalessi di quel tipo è molto rara. Anche sopravvivere per parecchie ore in una gelida notte d'inverno è un caso raro, specie quando il soggetto è un bambino scalzo e in pigiama. Di solito, non si va in cerca dell'eccezionale. Si aspetta di averlo sotto al naso, e poi uno se lo dimentica, o gli trova una spiegazione qualsiasi, al più presto possibile. Ho conosciuto uno psichiatra freudiano che una volta aveva visto uno spettro. Naturalmente lo aveva spiegato: un gioco di luci e di suoni che avevano dato origine a un'allucinazione... Tuttavia aveva l'onestà di ammettere che per alcune ore, fino allo spuntar del giorno, aveva creduto che quanto gli era parso di vedere fosse una realtà. Quando aveva avuto ragione? Quando aveva avuto il tempo di organizzarsi una difesa e di razionalizzare il tutto, oppure subito dopo l'esperienza?»
«Gli spettri,» disse George. Versò ancora da bere, per sé e per gli altri. Douglas coprì con la mano il proprio bicchiere. «Senta, Selby: tutto quel che vogliamo sapere da lei è questo... che cosa diavolo sta succedendo?»
Grainger prese il bicchiere, lo fissò, bevve qualche piccolo sorso e schioccò le labbra.
«Bere nel pomeriggio,» osservò, «dà un frisson tutto suo. Che cosa sta succedendo? Be', qualcosa di strano.»
«Cristo! Questo lo sappiamo.»
«E se qualcuno ne sa di più, allora riconosco la mia inferiorità.»
Quell'umiltà era esasperante: Douglas si rese conto che lo irritava, e George era un tipo ancora più irascibile. Disse:
«Finora lei ha parlato molto, ma non con un riferimento preciso alla situazione, no? Pensa che non dovremmo far niente... neppure andare a cercarli?»
«No, dobbiamo andare, invece, e prima che venga buio. Anzi, non appena avremo finito di bere, credo che dovremmo muoverci.» Indicò con il capo la finestra. «Il sole è ormai vicino al Grammont. Viene la notte, quando gli uomini non possono lavorare.»
Douglas uscì insieme agli altri. Ripercorsero i lunghi pendii innevati, segnati, come aveva detto George, dalle tracce delle ricerche precedenti. Il panorama aveva una sua strana bellezza. I raggi quasi orizzontali del sole investivano un paesaggio appesantito dalle ombre, ricco di una malinconica grandiosità. I picchi lontani, su cui stava librato il disco solare, erano di un candore dai riflessi d'oro, e un oro più carico tingeva la fitta lanugine del banco di nubi che copriva tutto il fondovalle e il lago. Il senso d'isolamento che si provava stando lassù era più intenso: si vedeva lo splendore lì e sull'orizzonte lontano, e l'aureo tappeto che copriva un mondo più buio situato in mezzo. Più buio, ma più umano.
Il sole scese dietro i picchi, la luce svanì dal cielo, e George, agitando le braccia, li richiamò per rientrare nello chalet. Le nubi sopra la valle erano di un grigio denso e minaccioso, e più alte, pensò Douglas, come se salissero per inghiottirli. Si sentiva stanco e depresso. Non avevano visto traccia di Ruth e del bambino. Li avevano chiamati, come aveva fatto l'altro gruppo, e avevano udito le proprie voci echeggiare esili sopra la neve. Lontano si muovevano le figure minuscole, in un grande vuoto. Dopo i primi cinque o dieci minuti, lui aveva rinunciato alla speranza di ritrovare quei due.
Si radunarono in un'atmosfera tetra. Mandy faceva il giro dello chalet, accendendo le lampade a petrolio. All'inizio gli erano sembrate simpatiche, ma adesso si rendeva conto della loro insufficienza, delle ombre che lasciavano negli angoli. George riaprì il bar, e fu raggiunto da Deeping, dai Grainger e da Diana. Douglas, che non se la sentiva di bere, andò in salotto dove, almeno, c'era un fuoco allegro. Jane lo accompagnò e sedette di fronte a lui. Non prese un libro: continuò a guardare il fuoco, con le mani posate sulle ginocchia. Due luci le rischiaravano il volto: quella del fuoco e quella della lampada. Aveva un viso buono, pensò. Era un peccato che la bontà contasse così poco, in una donna.
«Immagino,» disse Douglas, «che forse Ruth tornerà indietro, quando farà buio.»
«Sì.»
«Se troverà la strada.»
Jane rabbrividì. «È orribile pensare che siano là fuori. Orribile.»
«Riesce a immaginare perché...» Douglas s'interruppe. «Voglio dire, avrei capito se non avesse ritrovato il bambino, se fosse ancora sconvolta dall'angoscia. Ma così...»
«Qualche volta ci sono delle discronie.» La voce di Jane era asciutta e concentrata, come se lei ripensasse a qualcosa che sapeva da molto tempo, ma che non aveva mai compreso perfettamente. «Ci si sveglia e ci si rende conto che è accaduto qualcosa di orribile, e che sul momento non lo si è capito: ma è accaduto, e dopo niente potrà più tornare come prima.»
«Ma Ruth aveva con sé il bambino. Lo aveva ritrovato, vivo e in buone condizioni.»
«Sì.» Jane annuì. «Questo è vero.»
Douglas attese che proseguisse, ma lei tacque. Non aveva parlato tanto di Ruth, pensò lui, quanto di se stessa. Aveva subito la perdita di una persona cara. Era una donna, pensò, capace di una devozione duratura e costante. Doveva essere stato sconvolgente perderne l'oggetto dopo pochi anni di matrimonio.
A quel pensiero, il silenzio tra loro divenne imbarazzante. Douglas cercò di pensare a qualcosa da dire, ma le parole e le frasi gli turbinarono vuote nella mente, banali e offensive nello stesso tempo. Si disse che avrebbe fatto bene a tacere e poi provò l'impulso irresistibile di parlare.
«Noi tutti dovremmo abituarci all'idea dell'impermanenza. Dovrebbe esserci una punizione, quando cerchiamo di trasformare le cose transeunti in durature.»
«Davvero?» chiese lei. «E quali sono le cose transeunti, tra l'altro?»
«Tutto passa. Ed è un bene. Se la felicità durasse, durerebbe anche l'angoscia. Invece, possiamo sempre aspirare ad una monocromia. La normalità è solo dietro l'angolo.»
E naturalmente adesso parlava di se stesso, come aveva sospettato che facesse Jane. Notò lo sguardo di lei: probabilmente il tono della voce lo aveva tradito.
Lei disse, sottovoce: «E se una persona sceglie la monocromia, volutamente, volgendo le spalle allo splendore... e poi perde anche quello?»
«Le monocromie si perpetuano. Si rinnovano molto rapidamente: questo è il loro grande merito.»
Vi fu un altro breve silenzio, prima che Jane dicesse:
«Andrò a fare il bagno. Mi scusi.»
Aveva il volto preoccupato, un po' teso, e Douglas si chiese se si era offesa per qualcosa che le aveva detto lui. Ma Jane, arrivata sulla soglia, si voltò a guardarlo, e sorrise.
«Ci vediamo a cena, Douglas.»
«Prima beviamo qualcosa,» disse lui. «Al bar.»
Jane annuì. «Con piacere.»
L'atmosfera rimase pesante, e non venne migliorata dal fatto che si cominciava a sentire la realtà del ricorso alle razioni d'emergenza nonostante gli abbellimenti di Mandy. C'era una minestra nutriente, ma la portata principale, benché dimostrasse quel che si poteva fare con il corned beef, era pur sempre corned beef. Poi ci fu pompelmo in scatola, con aggiunta di kirsch per renderlo accettabile. In realtà, considerata la situazione, era una cena eccellente, ma nessuno mostrò di apprezzarla molto. Poi George e Grainger tentarono di riprendere a bere, ma era evidente che non se la sentivano. Erano tutti stanchi. Poco prima delle dieci, Mandy disse:
«Se non occorre altro, io andrei a letto.» E guardò Deeping. «Lasceremo accese tutta notte le lampade al pianterreno, caso mai... E penso sia meglio lasciare Stephen nella branda in camera nostra, per non disturbarlo. Le va bene?»
«Sì,» disse Deeping. Sbadigliò. «Credo che andrò a letto anch'io.»
Vi fu un esodo generale, cui prese parte anche Douglas. Grainger sembrava deciso a restare alzato, ma Elizabeth insistette perché salisse con lei. George rimase giù: da poco si era versato un whisky. Ne aveva bevuto parecchio, quella sera, ma lo portava bene.
Quando fu a letto, Douglas pensò per prima cosa alla donna ed al bambino che erano fuori, nella notte gelida. Adesso la luna era parzialmente oscurata dalle nubi, e si stava levando di nuovo il vento: dalla sua finestra, aveva visto il chiarore andare e venire tra gli squarci delle nuvole. Ma l'immagine, per quanto terribile, non prese vita. Esisteva in un vuoto, e gli stessi personaggi erano irreali. La donna era pazza, e la follia alienava la comprensione. Il bambino... l'immagine di lui morto era più forte del ricordo di quando, dopo, l'aveva rivisto vivo.
Perciò, abbandonando il presente, ritornò a Caroline, e all'amalgama di passato e di futuro che aveva cominciato a costruire, laboriosamente ma con gioia. Le scene ricordate frammiste a quelle immaginate... e dopo un po' era difficile distinguere le une dalle altre. Né lui ci teneva a farlo. Anche quello era irreale, ma si sentiva a suo agio in quell'irrealtà. Al suo ritorno a Winchester avrebbe trovato una lettera... no, Mrs. Williams gli avrebbe lasciato un appunto sulla scrivania. E lui avrebbe chiamato... non il numero di Blackheat, naturalmente. Un albergo? Non un albergo di Winchester... l'improbabilità era tale da far tremare l'immagine, da farla quasi dissolvere. Un albergo di Londra, del tipo in cui Caroline avrebbe probabilmente preso alloggio, tornando sola dall'America. Il Royal Court, magari; a lei piaceva Chelsea. Douglas calcolò i tempi, approssimativamente. L'aereo che arrivava all'aeroporto di Londra poco prima di mezzogiorno. Poi il passaggio alla dogana, l'arrivo al terminal verso la una, pranzo, e poi c'era un treno verso le tre e mezzo, no? Per le sei sarebbe stato nel suo appartamento. Se avesse telefonato subito e avesse parlato con lei, avrebbe potuto prendere il treno delle sei e mezzo per tornare a Londra, e pranzare con lei... in qualche posto speciale. Forse la White Tower. L'Etoile. Oppure, in un'atmosfera più sentimentale, Au Père de Nico.. E poi tornare indietro insieme per le vie buie e silenziose, con l'asfalto lucente di pioggia nella luce dei lampioni. Il profumo di Caroline, il ticchettio dei suoi tacchi...
Si svegliò, udendo un suono che in un primo momento non riuscì a localizzare, ma che era metallico, familiare. Certo... la maniglia dell'uscio che girava. La porta che si apriva. Dei passi. Non una persona sola: almeno due. Intontito dal sonno, chiese: «Chi è?»
La voce rassicurante di Deeping, con il suo accento dello Yorkshire: «Tutto bene, Douglas. Non si preoccupi.»
Ma detto sottovoce. E i passi che si avvicinavano al letto. Si levò a sedere e chiese bruscamente: «Cosa vuole?»
C'era una luce fioca che filtrava dalla finestra... il chiaro di luna dietro le nubi. Due figure si profilarono contro quel chiarore. Deeping e... Ruth!
«Allora è ritornata,» disse Douglas. «E il bambino? Andy sta bene?»
Non ci fu risposta, ma una terza sagoma più piccola attraversò il rettangolo di luce fioca. Soltanto allora provò paura. Era strano che i Deeping fossero entrati di notte nella sua stanza senza bussare: ma la stranezza era bilanciata dal fatto che li conosceva. Che pericolo potevano rappresentare i Deeping? Ma il bambino era diverso. La presenza del bambino trasformava la stranezza in incubo. E la loro mancata risposta assunse un significato spaventoso.
Sentì il respiro di Deeping, mentre si accostava al letto. Tra un attimo l'uomo sarebbe stato al suo fianco. Nella mente di Douglas, la paura e l'istinto di conservazione lottavano con il condizionamento di tutta una vita... la prima infanzia, la scuola preparatoria, la public school, l'università. Non mostrare la paura. Non gridare. Soprattutto, evita le situazioni imbarazzanti. La morale inglese.
Urlò un attimo prima che la mano gli toccasse il viso, invocò aiuto con tutte le sue forze, guizzò via, balzò dal letto. E urlò ancora e ancora, e sentì la propria voce riverberare nella stanza e nello chalet. Le mani si allontanarono, e poi i passi recedettero. Fuori dalla stanza e giù per le scale.
VII.
Erano di nuovo insieme, in salotto. Selby lanciò un'occhiata al cucù, poiché aveva lasciato il suo orologio sul comodino, e vide che erano le quattro meno cinque. Le ore piccole e silenziose, pensò con una fitta di nausea. Gli ricordava i tempi lontani, quando lui era un interno, e veniva svegliato da un nuovo arrivo al Pronto Soccorso, e si sentiva irritato, con un sapore cattivo in bocca. Ora era di nuovo così. Mandy stava accendendo la seconda lampada, Marie riattizzava il fuoco. Selby si guardò intorno, scrutando tutti. Peter, scarno e vigile accanto alla porta. Jane e Diana: quest'ultima gli parve insonnolita e, pensò con un lieve fremito di piacere, delizioza. Elizabeth, che sbadigliava. George, che aveva con sé lo spettinato Stephen. E naturalmente Douglas Poole, le cui grida sorprendentemente stentoree per invocare aiuto li avevano fatti scendere tutti, barcollanti, dai rispettivi letti.
Selby disse: «Bene. Adesso abbiamo un quadro un po' meno confuso. Cos'è successo, Douglas?»
George intervenne: «Douglas mi ha raccontato qualcosa. Credo che prima andrò a mettere a letto Steve.» Si avviò verso il corridoio, poi si fermò. «Lo metterò sul divano nel bar, per il momento. Mandy, ti spiace portarmi una coperta?»
George portò il bambino oltre la porta, la chiuse. Anche Mandy uscì per andare a prendere la coperta, e Marie la seguì. Sembrava in preda ad un'estrema apprensione che solo la presenza di Mandy riusciva a placare.
Douglas disse, piuttosto intimidito: «Temo di avere fatto un chiasso tremendo.»
«Abbastanza tremendo, sì,» disse Selby. «Ma non si è trattato di un incubo, vero? Era ben altro. E riguarda Deeping.»
«Tutti e tre i Deeping: anche Ruth e il bambino. Erano nella mia stanza. Ho rivolto loro la parola, e non mi hanno risposto. Si sono avvicinati al letto. Allora ho urlato.»
«Non hanno risposto affatto?»
Douglas aggrottò la fronte, ricordando. «No, mi sbagliavo. Ho sentito che c'era qualcuno in camera mia, e ho chiesto chi era. Deeping mi ha risposto di non preoccuparmi. Allora gli ho chiesto cosa voleva, e ho detto qualcosa a proposito di Ruth e di Andy. È stato allora che non ho ottenuto risposta.»
«E quando ha urlato?»
«Deeping aveva appena cercato di afferrarmi. Quando mi ha sentito urlare, è scappato. Sono scesi a precipizio, tutti e tre.»
George era rientrato, chiudendo la porta. Disse:
«Steve dorme. Non si era svegliato completamente. Meglio così. Loro sono scesi. Sembra che siano andati direttamente in cantina; ho trovato la porta aperta.»
Elizabeth disse: «Non capisco. Volevano aggredire Douglas nel suo letto, i Deeping, voglio dire, e Andy era con loro. Poi sono fuggiti, quando lui ha gridato... sono fuggiti dalla casa. Ma perché sono passati dalla cantina? Perché non dalla porta d'ingresso?»
«Qui le porte sono due, ed entrambe chiuse da catenacci pesanti. Quella della cantina è una sola.» George si guardò le mani: aveva sempre le unghie ben curate. «Avevano una gran fretta di andarsene.»
«Ma è assurdo,» disse Diana. «Perché dovevano aggredirla, Douglas? E se lo hanno fatto, perché avevano con loro Andy? E come hanno fatto Andy e Ruth a rientrare in casa all'insaputa di tutti? Però, immagino che Leonard lo sapesse, non è vero? Voglio dire... è stato lui a scendere per farli entrare?»
«Credo di conoscere la risposta a quest'ultima domanda,» disse George. «E serve anche a spiegare meglio perché sono passati dalla cantina. Giù c'è una finestrella che Mandy lascia aperta per il gatto: non proprio aperta, ma socchiusa. Adesso è spalancata. Un adulto non può passare di lì, ma il bambino sì, specialmente se qualcuno lo sorreggeva dall'esterno. E poi, lui ha potuto aprire la porta. E così, nell'uscire, non avevano bisogno di smuovere un solo catenaccio.»
«Anche questo è assurdo,» insistette Diana. «Ieri pomeriggio li abbiamo cercati, chiamati... Voglio dire, non avevano bisogno di fare questa irruzione. Se Ruth avesse suonato il campanello...»
«Noi avremmo saputo che erano in casa,» disse Selby. «E a quanto pare, loro non ci tenevano.»
Jane disse, sottovoce: «E allora che cosa volevano? Avrebbero aggredito veramente Douglas, se lui non avesse gridato?»
«Forse no,» fece Douglas. «Forse mi sono lasciato travolgere dal panico.»
«Leonard,» disse George. «È questo che non capisco. Ruth non è più stata normale da quando... da quando il bambino ha avuto il collasso. Ma Leonard era abbastanza sano di mente. Caso mai un po' troppo.»
Quel modo disorganico di affrontare i fatti separati, pensò Selby, non li aiutava a comprendere la situazione: se mai, li confondeva. Doveva esserci una spiegazione logica, ma bisognava scoprirla passo per passo.
«Procediamo con ordine,» disse. «Possiamo formulare delle ipotesi via via, e confrontarle con l'evidenza. Per cominciare, Ruth è entrata facendo passare Andy dalla finestrella, perché le aprisse. In secondo luogo, adesso Leonard è nelle stesse condizioni di lei... quali che siano.»
George obiettò: «Noi non sappiamo molto delle condizioni di Leonard. Nessuno l'ha visto... Douglas era mezzo addormentato, quando è accaduto tutto questo.»
«È vero,» fece Selby. «Eppure Leonard, come Ruth e il bambino, è fuggito a precipizio non appena è stato dato l'allarme. Esattamente come era fuggita Ruth questo pomeriggio.»
«La sua teoria dell'isterismo contagioso?» mormorò Jane.
«Oppure i diavoli di Marie, o la malattia ignota alla scienza. Facciamo un passo indietro. Ieri pomeriggio, Marie sorprende Ruth e Andy che, apparentemente, assalgono Steve. I due aggrediscono anche lei, ma sopraggiunge Mandy. E loro fuggono. Riescono a nascondersi fuori, forse scavando delle buche nella neve, come aveva già fatto il bambino. E durante la notte tornano allo chalet. Entrano senza far rumore. E senza far rumore salgono nella stanza di Leonard. E poi...»
«Poi diventa ridicolo,» osservò Jane. «Voglio dire, tutto il resto può venire spiegato come una crisi di pazzia di Ruth... che il bambino seguirebbe automaticamente.»
«Davvero?» chiese Selby. «Io non lo credo. Ma lasciamo perdere. Leonard è solo, perché Steve è rimasto con George e Mandy. Forse si sveglia, accorgendosi che la moglie e il figlio sono entrati nella stanza. Ma anche in questo caso, perché dovrebbe dare l'allarme? O forse ha il sonno più duro di Douglas. Comunque, in quella stanza succede qualcosa. I diavoli fanno un'altra vittima. O la malattia lo contagia. Oppure gli si comunica l'isterismo. Comunque vogliate metterla, adesso sono tre anziché due.»
Elizabeth chiese: «Tre che cosa?»
Selby rispose, irrequieto: «Di qualunque cosa si tratti, può essere trasmesso. E c'è l'impulso di trasmetterlo. L'aggressione a Steve, il... il reclutamento di Leonard, il tentativo contro Douglas. Probabilmente perché, a parte Peter e Marie, che dormono in mansarda, e Peter ha il sonno leggero e il pavimento scricchiola terribilmente, Douglas era l'unico che dormisse da solo. E perciò era vulnerabile.»
Con voce tremante, Jane chiese: «E se non avesse invocato aiuto... cosa pensa che sarebbe successo?»
«Non riesco a immaginare i dettagli. Ma ovviamente, sia che si tratti di contagio, di possessione, o d'isterismo collettivo, è un processo infettivo. Forse potevano riuscirci finché Douglas era addormentato. Oppure, se era sveglio, tappandogli la bocca con una mano, o stringendogli la gola per farlo tacere. Dobbiamo presumere che, se non avesse dato l'allarme svegliando tutta la casa, quello che è capitato a Leonard sarebbe accaduto anche a Douglas.»
«E allora,» osservò Elizabeth, «sarebbero stati quattro.»
Come tante altre volte, Selby ammirò il calmo acume di lei, dissimulato dall'apparente indifferenza, dalla mancanza di interesse. Disse, con calore:
«Esattamente! Di cui tre adulti. Mi chiedo di chi si sarebbero occupati, poi? Delle donne? Ma sarebbero stati comunque in condizioni d'inferiorità numerica, se qualcuno avesse dato l'allarme. Forse avrebbero atteso la mattina, fino a quando qualcuno avesse cominciato ad alzarsi. Peter, e Marie, e poi Mandy. E poi George: e avrebbero avuto a disposizione la parte superiore della casa. Al resto di noi non sarebbero rimaste molte possibilità.»
Si aprì la porta, e Marie entrò con un vassoio, seguita da Mandy. Questa disse:
«Ho preparato un po' di cioccolata. E ci sono delle gallette. Purtroppo, sono rimaste solo quelle al formaggio. Ci è rimasto solo un pacchetto di biscotti, e avevo pensato di tenerli per i bambini... per Steve.»
«Benissimo,» fece George. «La cioccolata è ottima, per quelli che la gradiscono. Ma io credo di aver bisogno di qualcosa di più forte, dopo che Selby ha cercato di terrorizzarci.» Nella sua voce c'era un tono di disprezzo e di disinvoltura. «Io vado di là a prendere una bottiglia.»
Marie depose il vassoio ed esitò. Mandy disse:
«Rimani pure con noi, se preferisci.» Guardò gli altri con aria di scusa. «Non vi dispiace, vero?»
Tutti presero le tazze di cioccolata. George, che tornava dal bar con la bottiglia, se ne accorse.
«Sono l'unico che beve?» chiese. «Selby? Un goccio di scotch nella cioccolata? Douglas?» Quando entrambi rifiutarono, disse: «Comunque, voglio portarvi via per qualche minuto, voi due. Devo dirvi qualcosa. Andiamo di là nel bar. Peter, tu veglia le signore.»
La sua voce aveva un tono d'autorità militaresca. Doveva essersela cavata bene in guerra, pensò Selby. Una nullità prima, una nullità dopo: ma quando venivano i tempi della violenza, George doveva essere in gamba. Sebbene il tono fosse brusco, e le parole più un comando che un invito, Selby pensò che era inutile discutere o rifiutare. George tenne aperta la porta e Selby passò, seguito da Douglas. George estrasse una scatola di fiammiferi a accese la lampada sul tavolo. Guardando la scatoletta, prima di rimetterla in tasca, disse:
«Cominciamo ad essere a corto anche di questi. Be', possiamo sempre cavarcela con dei pezzi di carta. Chiuda la porta, Douglas.»
Sedettero. George aveva preso un bicchiere dalla credenza. Vi versò dello Scotch, lo bevve, e ne versò dell'altro.
«Se volete qualcosa per buttare giù la cioccolata, prendetevi i bicchieri.» Poi fece una pausa. «Mi meraviglio di lei, Selby.»
Selby si appoggiò alla spalliera della sedia. «Davvero? E perché?»
«Spargere l'allarme e l'inquietudine tra le signore. Ha spaventato tanto la piccola Diana da farla tremare dentro a quelle mutandine di pizzo che probabilmente porta.»
L'aveva detto con leggerezza: ma la sfumatura d'acciaio — disprezzo, risentimento? — era ancora più evidente di prima. Selby disse:
«E cosa avrei dovuto fare, secondo lei? Dire che adesso ci sono due pazzi pericolosi invece di uno, là fuori, e che dovevano tornarsene a letto e non pensarci più? Era necessaria una specie di spiegazione, dato che ormai sapevano che i Deeping se n'erano andati.»
George disse: «Sarebbe bastato raccontare che Ruth era rientrata in casa insieme al bambino, aveva svegliato Leonard... e lui l'aveva seguita per tutta la casa, magari cercando di convincerla a tornare a letto...»
«E tutti e tre sono finiti per caso addosso a Douglas?»
«Be', e perché no? Douglas gli ha parlato, e Leonard gli ha risposto di non preoccuparsi. Poi Douglas ha gridato, ha spaventato Ruth. Lei è corsa giù insieme al bambino, e Leonard l'ha inseguita. Giù in cantina, e poi fuori dalla porta che Ruth aveva lasciato aperta.»
Douglas protestò: «Ma non è stato...»
George l'interruppe. «Forse no. Ma lei avrebbe dovuto star zitto, non le sembra? A che serve spaventare la gente per nulla?»
Selby disse: «Innanzi tutto, lei sottovaluta l'intelligenza delle donne. È un'abitudine dei maschi di professione... sempre inopportuna, e qualche volta pericolosa.»
George arrossì leggermente, ma si controllò.
«E in secondo luogo?»
«Per il loro bene, e per la sicurezza di tutti... debbono rendersi conto che i Deeping, adesso, costituiscono una minaccia. O vorrebbe negarlo?»
Vi fu un silenzio. George disse: «Alle quattro del mattino, non me la sento di negare o di accettare niente. Questa è la seconda notte consecutiva che le donne sono state tirate giù dal letto a suon di urla.» Poi lanciò un'occhiata a Douglas. «Non è colpa di nessuno, ma si sentiranno sconvolte. La cosa migliore è calmarle e farle tornare a letto, e non spaventarle parlando di pericoli e di quello che sarebbe potuto accadere se Douglas non avesse gridato per chiedere aiuto.»
«Farle tornare a letto?» disse Selby. «Addormentate con le coperte ben rimboccate? E se i Deeping tornano, magari fra un'ora? Anche se spranga la porta e chiude la finestra della cantina... cosa impedisce ai Deeping di spaccare un vetro e di entrare?»
«Niente,» fece George. «Ma anche lei, in quanto a sottovalutare l'intelligenza, non scherza. Non so se i Deeping siano o no pericolosi per noi. Forse a Dulwich si comportano sempre così. Ma evidentemente non possiamo correre rischi. Un'altra ragione per cui vi ho chiamati qui è per decidere il modo migliore di organizzarci.» Lanciò un'occhiata tagliente a Selby. «Non so bene cosa voglia dire maschio di professione, ma non ritengo necessario coinvolgere le donne. È evidente che dobbiamo mettere qualcuno a montare la guardia, di notte. Stavolta ci penserò io. Poi... siamo in quattro, contando Peter. All'incirca, due ore a testa.»
Douglas disse: «Pensa che domani notte saremo ancora... be', in questa situazione?»
«Forse no,» rispose George. «Forse domattina sentiremo suonare il campanello, e ci troveremo davanti i Deeping, completamente normali, che ci chiederanno del caffè bollente. O magari arriveranno i soccorsi da Nidenhaut.»
«Preferisco la prima alternativa,» disse Selby, «anche se ci trovo qualche pecca.»
«Davvero?» chiese George. «Cos'è che non le piace nella seconda?»
«I Deeping sono cambiati,» disse lentamente Selby. «Da diversi punti di vista. La temperatura corporea, il polso. E la resistenza al freddo sembra molto più spiccata. Ma hanno ancora certe limitazioni fisiche. Entrano furtivamente in una casa con normali metodi umani, e fuggono come farebbe un essere umano.»
George tirò fuori un pacchetto di sigarette, l'offrì a Douglas, che ne prese una. Poi fece scattare l'accendino. Mentre Douglas accendeva, disse:
«Che cosa sta cercando di dire, Selby... che non sono umani? E cosa diavolo significa?»
Aveva la voce ferma. E anche la mano. Ma Selby pensò di avere una spiegazione per il risentimento dimostratogli da George. Non era perché lui avesse spaventato le donne: quello era solo il pretesto. Lo sconvolgeva sentire esprimere il suo stesso terrore. George era un uomo che temeva ben poche cose nel mondo naturale, ma aveva paura del sovrannaturale. Ora che se ne rendeva conto, si sentì più comprensivo. Disse in tono blando:
«Non sto cercando di dire niente di speciale. Consideriamola una malattia contagiosa. Il fatto è che sono diversi, sotto alcuni aspetti.»
«Non dà troppe cose per scontate, Selby?» chiese Douglas. «Non ha accertato il polso e la temperatura di Ruth... solo del bambino. Lei sembrava gelata, d'accordo, ma era stata fuori a cercarlo. E di Leonard non sa niente: solo che è andato con loro... con sua moglie e suo figlio.»
«E la temperatura e il polso del bambino potevano essere collegati al collasso e al coma,» disse Selby. «È giusto. Forse ho ecceduto. Ma continuo a non essere particolarmente ansioso di vedere arrivare i soccorsi di Nidenhaut, per il momento.»
«Perché?» chiese Douglas.
Selby si alzò e andò alla credenza. Prese due bicchieri e li portò al tavolo. Guardò Douglas con aria interrogativa, e versò da bere per tutti e due. Poi disse:
«Perché, fino a quando noi siamo isolati dal resto del mondo, lo sono anche loro. Se la strada viene riaperta, possono portare il contagio a Nidenhaut. E da Nidenhaut...»
«Crede che potrebbe esserci un'epidemia?» chiese Douglas. «Non è...»
George l'interruppe. «Lei è bravissimo a far venire la pelle d'oca alla gente, Selby.» Aveva un tono pesantemente sarcastico. «Credevo che voi medici foste tutti forti e silenziosi. E abituati a tenere a freno l'immaginazione, anziché a lasciarla correre a briglia sciolta.»
Selby rispose amabilmente: «Lei ha in mente i medici con pazienti che si svegliano di notte con il mal di pancia e credono di avere un cancro. Il mio lavoro consiste nel realizzare i sogni, non nello scacciare gli incubi del desiderio di morte. Non ho nessun motivo di essere forte e silenzioso.»
«Oh, diavolo!» fece George. Prese la bottiglia e si riempì di nuovo il bicchiere. «Così non si approda a nulla. Propongo che voi due, e le signore, ve ne torniate a letto tutti quanti. Potremo riparlarne domattina.»
Selby pensò, George, lì solo con la bottiglia di whisky e la luce vacillante della lampada, e il cigolio e lo scricchiolio del legno nel vecchio chalet.
«Lei ha più da fare, di giorno,» gli disse. «Resterò io.»
«No!» Il suo tono era un po' troppo enfatico. «Tocca a me, Selby.»
Si fissarono. Il silenzio fu rotto da Douglas.
«A me non dispiace restare alzato.» Fece una pausa. «Potremmo lanciare una moneta. Oppure giocare ai dadi.»
George scoppiò a ridere, all'improvviso. «Non ho mai detto di no a un giro di dadi. Vado a prendere il bussolotto.»
Mentre George era fuori, Douglas sorseggiò il liquore, poi andò alla credenza per diluirlo.
«Pensa davvero che i Deeping siano un pericolo, Selby?» chiese. «Per gli altri, oltre che per noi?»
«Non so,» fece Selby. «Preferisco non sottovalutare le cose. Né i pericoli, né l'intelligenza altrui.»
«Crede che si tratti d'una specie di malattia?»
Selby scosse il capo. «Non lo so.»
George tornò, facendo tintinnare i dadi nel bussolotto di cuoio. Sembrava più allegro: anzi, sogghignava.
«Le signore credono che ci siamo sbronzati. Tranne Diana. Voleva venire qui. Tre giri?»
«Uno,» disse Selby. «Altrimenti resteremo alzati tutta notte. Assi in su e re a lato.»
Ognuno di loro lanciò un dado. Selby e Douglas tirarono un fante ciscuno, George un re. Prese il bussolotto, raccolse tutti i dadi, li agitò, rovesciò il bussolotto e, coprendolo con le mani, esaminò il suo punto. Poi passò il bussolotto a Selby, attraverso la tavola.
«Tre fanti.»
Sorrideva, con gli occhi intenti. Selby annuì, prese il bussolotto.
C'erano due fanti, con una donna, un dieci e un nove. Senza esitare, tirò fuori il nove e il dieci, e li lanciò.
Vennero un fante e una donna. Selby disse:
«Quattro e una donna.»
Douglas prese il bussolotto, guardò sotto, esitò, e mostrò i dadi. Lasciando i tre fanti sul tavolo, lanciò la donna, dentro al bussolotto.
George lo fissò. «Allora?»
Douglas guardò sotto al bussolotto. «Quattro fanti e un re.»
George alzò la mano. «Che jella.» C'erano una donna e un nove. George prese i dadi e li rimise nel bussolotto. Agitandolo, disse: «A noi due, Selby.»
Guardò, poi spinse il bussolotto attraverso la tavola.
«Minima.»
Teneva gli occhi fissi su Selby: questi batté le dita sul fondo del bussolotto rovesciato. Era stata un'occhiata rapidissima, ma non significava nulla: anche con dei dadi sbiaditi come quelli, George aveva gli occhi acuti e la sveltezza necessari per individuare senza esitazioni il risultato di un lancio. La precedente dichiarazione di tre fanti era stata di prelazione, e falsa, ma era riuscito a passarla a Douglas. Adesso che erano rimasti solo loro due, la situazione era più critica. E se lì c'era una scala minima, poteva fare una cosa sola: rimettere in gioco il nove nella speranza che uscisse un asso, e chiamare una scala massima. C'era una probabilità su cinque. E naturalmente, poteva darsi che la scala non ci fosse per niente.
Scoperchiò. Asso, re, donna, dieci, nove. Una scala buca.
«Peccato,» disse.
George annuì. «Era un rischio. Le lascio la bottiglia. Vada a prenderne un'altra al bar, se questa la finisce. Ho lasciato la chiave dentro.»
La bottiglia era piena per tre quarti. «Se la finisco,» disse Selby, «non ce la farò ad arrivare fino al bar.»
Quando gli altri furono andati a letto, Selby si versò dell'altro whisky, e fece rotolare pigramente i dadi sul tavolo. Tre assi. Un buon primo lancio. Pensò alla partita che avevano appena giocato e a George. Qualche volta, George faceva dichiarazioni preliminari false, specialmente nel gioco finale, ma non l'aveva mai sentito, prima, dichiarare una scala. C'era una sola spiegazione possibile: aveva fatto apposta, sapendo che Selby, a meno che giocasse con pazzesca leggerezza, avrebbe cercato di batterla. Aveva dichiarato per perdere. E poteva averlo fatto per un solo motivo. La paura. George, disperatamente, non voleva rimanere lì solo, ma l'orgoglio l'aveva spinto ad offrirsi. E i dadi gli avevano offerto il mezzo per cavarsi d'impaccio senza perdere la faccia.
In fondo era giusto. Le debolezze altrui si potevano riconoscere, ma senza troppa insistenza. Non c'era niente di male, purché non si facesse capire chiaramente ciò che si era scoperto. Selby era soddisfatto di non aver lasciato intendere a George quanto aveva capito, di averlo lasciato tornare a letto convinto di aver salvato l'onore.
Un lontano scricchiolio del legno gli ricordò perché si trovava lì. Aveva controllato la cantina, si era assicurato che la porte fosse sprangata, le finestre ben chiuse. In quel silenzio, lo spicinio di un vetro che si rompeva si sarebbe sentito chiaramente. Tuttavia, pensò, non si trovava nella postazione migliore. Avrebbe dovuto tener d'occhio le scale. Anzi, si disse, avrebbe potuto sedersi sulla scala, ma il bar, con la porta aperta, sarebbe stato un buon luogo per stare di vedetta, e molto più comodo. Prese il bicchiere, e poi, ripensandoci meglio, anche la bottiglia, e si avviò verso il bar.
Guardò fuori dalla finestra a doppi vetri. La luna era seminascosta dalle nubi. La luce era appena sufficiente per distinguere la linea del pendio, ma non c'era la possibilità di distinguere delle figure, a meno che venissero molto vicino. Ma quelli l'avrebbero fatto? Le loro facce oltre la finestra, supplichevoli, ad implorare che li facesse entrare. O forse avrebbero fatto smorfie orribili. Come una scena di un film dell'orrore. Selby sorseggiò il liquore e sorrise. Era ridicolo. I Deeping, due coniugi del ceto suburbano, con il figlio... era impossibile collegarli a una nozione d'orrore.
Eppure adesso erano là fuori, nella neve. Lì, all'esterno della finestra, era appeso un termometro. Selby portò la lampada e guardò, attraverso il vetro. Non poteva esserne sicuro, ma gli pareva che segnasse sei o sette sotto zero. Una coppia del ceto medio suburbano, e il figlio... E per il bambino, era la seconda notte all'addiaccio. Questo era già abbastanza orribile: sia pensare a un bambino normale che soffriva per il freddo atroce, sia ad un essere cambiato, insensibile a quella temperatura. Era un orrore assurdo, insensato.
E poi, pensò con tetro umorismo, c'era una specie di pena del contrappasso, per lui. Gli anni di disinvolta eterodossia, di blande beffe agli idoli della medicina, ai colleghi troppo zelanti, lo avevano lasciato ignorante e impotente quanto il medico più devotamente ortodosso. Forse ancora più impotente, perché non era in grado di difendersi da quella bizzarria, di trovare un rifugio nel compiacimento verso se stesso. Qualcosa aveva cambiato i Deeping, li aveva cambiati fisicamente e mentalmente: e quel qualcosa non esisteva nella sua filosofia, come non esisteva in quella del povero vecchio Orazio nell'Amleto. Una malattia? Isterismo? Tanto valeva accettare i diavoli alpini di Marie. Era una teoria più ampia, e quindi più soddisfacente.
Un suono lo scosse: alzò di scatto la testa. Veniva dalle scale: ma dalla parte più alta della casa, non dalla cantina. Ebbe un istante di apprensione, sospettò che i Deeping fossero riusciti a passare a sua insaputa, che lassù tutti fossero cambiati, lasciandolo orribilmente solo: ma poi si scosse. Molto probabilmente era George, tenuto desto dalla coscienza, che scendeva ad assicurarsi se tutto era in ordine. Un altro suono. Sì, era qualcuno che scendeva. Ma non George. Un passo troppo leggero. Un paio di pantofoline, due caviglie bianche, una vestaglia di seta azzurra.
Lei scese la scala e, senza esitare, attraversò il corridoio e si diresse verso il bar. Era perfettamente truccata, notò Selby, con i capelli ben pettinati. Le chiese, sottovoce:
«Cosa c'è, Diana? Non riesce a dormire?»
«No.» La ragazza si appoggiò al bar e lo guardò. Parlava anche lei sottovoce: non un bisbiglio da cospiratrice, ma sommessamente. «Jane si è addormentata. Ma io ero inquieta. Ho pensato... crede che bere qualcosa mi aiuterà a dormire?»
Selby rifletté per un momento, con aria seria.
«Non mi sorprenderebbe. Per nulla. Aspetti, le verso qualcosa.»
Dovette passarle accanto, per andare dietro al banco. Diana aveva un profumo che Selby aveva già sentito, ma non addosso a lei. Normalmente Diana usava un profumo leggero, da brava ragazza: questo era molto più pesante. Femme? Qualcosa del genere... lui non ricordava mai i nomi. E cosparso in abbondanza. Adesso era a una certa distanza da lei, ma il profumo era ancora forte.
«Cosa prende?» le chiese. «Io bevo whisky, ma George mi ha lasciato carte blanche.»
«Whisky: va benissimo.»
«Se porta qui il mio bicchiere, le terrò compagnia.»